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podcast

Le Figlie della Repubblica - Stagione 3

#Episodio 5

Sara Scalia racconta la madre Miriam Mafai

SINOSSI

Proveniente da una famiglia cosmopolita e anticonformista, caratterizzata da una grande sensibilità artistica e apertura culturale, Mafai diede vita a una lunga e appassionata militanza nelle fila del Partito comunista italiano, un partito composto prevalentemente da uomini, da padri e da mariti, in cui però seppe esprimere ruoli e sensibilità originali. Questo podcast ci racconta, attraverso l’accorato racconto della figlia Sara, il percorso biografico della madre Miriam, tra militanza di partito, giornalismo, scrittura e femminismo, che l’ha resa una delle più accorate voci critiche della sinistra italiana.


BIOGRAFIA

Miriam Mafai, all’anagrafe Maria Mafai (Firenze, 2 febbraio 1926 – Roma, 9 aprile 2012), è stata giornalista e scrittrice, militante politica comunista, tra le fondatrici de “la Repubblica”.

Mafai proveniva da una famiglia cosmopolita e anticonformista, segnata in profondità dall’esperienza artistica. Il padre Mario, cattolico, era un pittore di vaglia, così come la madre Antonietta, pittrice, musicista e scultrice di religione ebraica. Questa apertura contribuì a orientare la sua formazione in senso antifascista. Con l’approvazione nel 1938 delle leggi razziali non potè più frequentare il ginnasio. Animata dal desiderio di giustizia sociale e ispirata dalla resistenza sovietica all’invasione nazista avviò la sua militanza comunista. 

Nell’agosto 1943, assieme alla sorella Simona fu introdotta nell’organizzazione clandestina del Pci e decise di lasciare la casa paterna per recarsi in una residenza di partito. Divenuta funzionaria comunista prese parte alla campagna elettorale per le elezioni politiche del 18 aprile 1948, recandosi in Basilicata. Nonostante la sconfitta elettorale del Fronte popolare, Mafai confermò la scelta di non proseguire gli studi universitari e di dedicarsi alla politica. Fu così inviata dal partito in Abruzzo, dove nel 1949 sposò il segretario della Federazione de L’Aquila Umberto Scalia, con il quale ebbe due figli. 

Nel 1956, l’avvio della destalinizzazione, con la denuncia da parte di Kruscev dei crimini di Stalin, segnò un trauma per molti militanti comunisti. Per Mafai coincise con una sorta di discontinuità nelle proprie scelte di vita. Nel 1956 lasciò l’Italia e il suo ruolo di funzionario del Pci per recarsi a Parigi, al seguito del marito che era stato inviato nella capitale francese con l’obiettivo di rafforzare i legami con i comunisti transalpini.

Iniziò così una sorta di seconda vita, quella di giornalista. Divenne collaboratrice per “l’Unità”, per cui si occupò di cronaca parlamentare ma presto lasciò anche questo giornale per “Noi donne”, settimanale dell’Unione donne italiane (UDI), che diresse dal1964 al 1969. In questi stessi anni si separò dal marito e iniziò una relazione con il deputato comunista Giancarlo Pajetta, che durò fino alla morte di quest’ultimo nel 1990. Nel 1976, decise di seguire Eugenio Scalfari nel progetto di fondazione de “La Repubblica” dove si occupò di articoli a carattere politico e sociale. Divenne una delle firme più rappresentative del quotidiano, dotata di grande notorietà e autorevolezza, amatissima dal pubblico dei lettori e delle lettrici.

Durante la sua attività di scrittrice, Mafai dedicò ampio spazio alla questione femminile, dedicando diverse opere al ruolo delle donne nella guerra e nel dopoguerra. Oltre ai temi del femminismo, l’attività pubblicistica di Mafai fu incentrata attorno alla riflessione sulla storia e sull’identità del Pci e del comunismo italiano.

Morì a Roma il 9 aprile 2012.


TRASCRIZIONE PODCAST

Una delle prime letture che io ricordo, che mia madre ci fece, invece che Cenerentola e Cappucetto Rosso, è stata “La scoperta dell’America” di Cesare Pascarella, un assoluto capolavoro della poesia romanesca, che ci divertì moltissimo. Noi a schiantarci a ridere, ci piaceva tantissimo. Lì si racconta di Cristoforo Colombo che arriva, trova questi e incontra questi strani personaggi. Colombo gli dice “e tu chi sei” e lui “E chi ho da esse? So’ ‘n servaggio!” E ci piaceva, ci facevamo un sacco di risate.

Le figlie della Repubblica è un podcast promosso dalla fondazione Alcide de Gasperi, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica da un punto di vista più intimo e familiare, quello delle loro figlie. In questa puntata raccontiamo Miriam Mafai con i ricordi di sua figlia Sara Scalia, giornalista. Miriam nasce a Firenze il 2 febbraio del 1926 da una famiglia colta cosmopolita e dedita all’arte. Diventerà una militante comunista, giornalista e scrittrice. Il padre Mario, cattolico e la madre Antonietta Raphael, lituana di religione ebraica, entrambi artisti affermati, allevano Miriam e le sorelle Simone e Giulia, nati rispettivamente nel ‘28 e nel ‘30, in un’atmosfera di laico sincretismo culturale, celebrando tanto le festività cattoliche quanto quelle ebraiche. Questa educazione spinge Miriam a sviluppare un rifiuto per i riti, le ortodossie, le appartenenze a critiche.

Mia nonna, la madre di mia madre, è profondamente legata alla ritualità, quindi lo Shabbat, il Pesach, tutte le festività ebraiche. E mia madre, invece, era proprio questo l’aspetto che la irritava profondamente. Mia madre è cresciuta in questa sorta di bizzarro sincretismo, si celebrava lo shabbat, però poi nella stessa sera si leggevano le poesie del Belli, si recitavano canzoncine, cioè era tutto un misto molto divertente al quale peraltro mia madre è rimasta legata per tanti anni.

Torniamo alla famiglia di origine, convintamente antifascista, con la promulgazione delle leggi razziali nel ’38, Miriam e Simona, le più grandi, non possono più frequentare il ginnasio. E la famiglia Mafai lascia Roma per andare a Genova, dove sperimenta la tragedia della guerra e dei bombardamenti. Qui Miriam si iscrive al liceo classico Andrea Doria, animata dal desiderio di giustizia sociale e ispirata dalla resistenza sovietica all’invasione nazista Comincia comincia la sua militanza comunista. Il trauma della segregazione razziale incide profondamente sulle sorelle Mafai, nonostante la giovane età maturano una forte consapevolezza della propria identità e cultura familiari.

Certo che le ragazze furono drammaticamente colpite dall’esclusione dalle scuole, però la profonda consapevolezza di una loro diversità, loro ce l’avevano già, erano figlie di artisti, mia madre dice sempre “ma quando a scuola mi chiedevano che fa tuo papà” e io dicevo “mio papà fa il pittore” e tutti pensavano che facesse l’imbianchino, invece mio padre è un artista, mia madre pure ci mandava in giro con i capelli tagliati corti da lei stessa, dalla nonna stessa, vestite con certi grembioloni a scacchi. E, insomma, noi eravamo dei ragazzini diversi. Nostra mamma non stava a casa a lavare i piatti, il nostro padre non era né un professore di scuola, né un impiegato di un ministero, non avevamo la tessera del partito fascista, non ci vestivamo da piccolo italiano. Quando uscirono le famigerate leggi razziali del ’38, a causa Mafai è fatta una sorta di piccolo consiglio di famiglia, perché la mamma del nonno, proprietaria di un piccolo alberghetto a piazza Indipendenza, una di queste romane semplici ma fattive, insomma che sapevano come risolvere i problemi, propose alle ragazze di fare un certificato di battesimo falso. Si decise che anche se loro non erano praticanti, erano comunque figli di una madre ebrea, le proprie origini sono quelle, bisognava fare i conti con la realtà e combatterla, ma non certificare il falso.

Nell’agosto del ’43, la famiglia torna a Roma e le sorelle Mafai sono introdotte nell’organizzazione clandestina del PC, da un assistente del regista Luchino Visconti. Cominciano a distribuire volantini per il giornale l’Unità e poi fanno una scelta radicale. Lasciano la casa paterna per vivere in una residenza di partito che ospita uomini e donne militanti. È così che Miriam decide di dedicarsi completamente alla politica e abbandona i propositi di studiare agraria all’Università.

Miriam e Simona sono state sempre legatissime, anche se erano molto, molto diverse. Le univa una stessa passione politica, la stessa passione civile. Cominciano a frequentare la Biblioteca Nazionale e lì cominciano a studiare la Costituzione dell’Unione Sovietica. Sottolineano tutti gli articoli più interessanti di questa Costituzione che sulla carta era meravigliosa. Miriam ha 15 anni e Simona 13. Ed è proprio nella biblioteca nazionale che loro incontrano un giovanotto che gli sembra molto elegante, un bel tipo eccetera, il quale si avvicina a loro e dice “voi conoscete Luchino Visconti, volevo capire se eravate interessati a prendere un contatto con il Partito Comunista clandestino”. E lì comincia la loro passione politica che loro hanno anche respirato in casa, perché naturalmente la loro casa era frequentata da artisti, antifascisti, però lì capiscono che questo anelito di libertà, di democrazia, etc. può trasformarsi in qualcosa di concreto e due anni dopo loro usciranno di casa, 17 -15 anni. Miriam si porta dietro Simona. In realtà mia madre se ne andò anche per una vicenda privata, perché insomma mia madre e sua sorella scoprirono alcune scappatelle del nonno, che facevano molto soffrire la nonna naturalmente. E questa cosa per loro, per questo loro mondo era non sopportabile. E Mario, il nonno, disse “guardate che se uscite da quella porta non rientrate più”, e le ragazze dissero “va bene”. E se ne andarono. Quindi si dedicarono entrambe completamente all’attività politica. Però avevano, diciamo, questo grande paracadute del Partito Comunista. Mia madre scrive, “sono uscita dalla mia famiglia e ne ho trovato un ‘altra” e non potevo certo immaginare che quell’altra famiglia sarebbe stata assai più esigente e assai più dura”. Perché era così. Il partito comunista era abbastanza una chiesa. Era un mondo a parte e alle booteghe scure c’era il medico dei bambini, c’era l ‘elettricista, c’era l ‘infermiere, C’era il falegname. Dove i funzionari del PC però insomma avevano una serie di servizi, di notevoli facilitazioni per la loro vita, ecco c’era l ‘agenzia dei viaggi, li faceva andare in Russia, in Jugoslavia a fare le terme, era un mondo a parte.

Miriam entra così giovanissima in una nuova dimensione, quella della militanza comunista, che presto sarebbe diventata totalizzante. Sotto Governi di unità fascista lavora presso alcuni ministeri, al seguito degli esponenti comunisti e diventa a tutti gli effetti una funzionaria del PC. Prende parte così alla campagna elettorale per le elezioni politiche del 18 aprile del ‘48 e viene inviata in Basilicata dove scopre non solo la miseria dei sassi di Matera ma anche le difficoltà nel comunicare con le donne contadine, analfabete, ancora relegate nella dimensione domestica e separate da lei da una diversa appartenenza sociale.

Lei va in Basilicata a Matera, sassi di Matera, uomini, donne, bambini, animali, vivevano tutti insieme. La miseria, la povertà, l’ignoranza, la durezza, insomma, della vita. E lei viene mandata lì a fare, diciamo, le sue prime esperienze politiche sul campo. C’erano degli uomini, ad ascoltare. Non c’erano le donne, dove stanno le donne, dove facciamo andarla a trovare? È un compagno, diciamo, di partito, che era responsabile di questa cosa, le disse “ma tu non ti preoccupare, tu parla, parla, che tanto le donne ti sentono dalle persiane chiuse, quindi tu parla alle persiane, perché dietro ci sono le donne”.

Nonostante la sconfitta elettorale del fronte popolare Miriam conferma la scelta di non proseguire gli studi e di dedicarsi alla politica. Viene così inviata dal partito in Abruzzo, dove nel ‘49, a l’Aquila, sposa un funzionario locale del partito, Umberto Scalia. Qui si impegna nella lotta alla miseria e per il miglioramento della condizione dei contadini del Fucino, tradizionale feudo dei principi di Torlonia, attraverso la richiesta di una completa realizzazione della riforma agraria varata nel ’50 dal governo de Gasperi. Si tratta soprattutto di impedire che l’ostilità dei grandi proprietari terrieri e il tentativo della DC di fare della riforma uno strumento clientelare, ridimensioni la portata del provvedimento.

“Mia madre conosce mio padre, Umberto Scalia, figlio di contadini abbruzzesi, bello, bell’ uomo, che ha avuto un’infanzia difficilissima, poverissima, questa casa di questo paesino, del Fucino, che non aveva il pavimento, cioè il pavimento di terra battuta. Mio padre era il più piccolo di cinque figli, riuscì con grande fatica a emanciparsi da questa condizione molto vicina, come dire, agli ultimi della terra proprio attraverso la politica, si laureò in legge, arruolato nel PC e poi uno degli animatori della lotta contro il feudo dei principi Torlonia, del Lago e del Fucino, a cui poi mia madre partecipò. Allora ci fu questo matrimonio nel ‘49 e si sposarono in comune e la prima notte di nozze la passarono nella soffitta della Federazione Partito dell’Aquila, ma andarono forse a bere una cosa al baretto di fronte al comune dove si erano sposati e neanche i genitori vennero avvertiti.

Nel ’56 l’avvio della destalinizzazione e la denuncia da parte di Khrushchev dei crimini di Stalin segnano un trauma per tutti i comunisti. Molti militanti decidono per il distacco dal PC, Mafai no. Quando il marito viene inviato a Parigi con l’obiettivo di rafforzare i legami con i comunisti transalpini, diventa corrispondente di “vie nuove”, settimanale di area comunista, che le consente di sviluppare un giornalismo vivace, autonomo, brillante, orientato alla cronaca e alle inchieste. Inizia per lei una seconda vita, quella da giornalista.

Mia madre fino a quel momento era stata una funzionaria del Partito Comunista, era stata anche assessora al Comune di Pescara, prende la palla al balzo e segue il marito a Parigi. Ora siccome io non ce la vedo a seguire il marito per pura disciplina coniugale, immagino che sia stato un pretesto, un’occasione da cogliere per sganciarsi, però c’ha questi due ragazzini, ‘sta palla al piede, sono due bambini quindi all ‘inizio ci porta tutti e due, poi capisce che diventa veramente complicato, quindi mio fratello lo tiene lì a Parigi e lo mette in una specie di collegio e io ad Alfia appunto a Terni. Nel ’56, quando molti uscirono dal Partito Comunista dopo l’invasione d’Ungheria, in chi rimase, e mia madre fu una di quelli, credo che ci fu anche una sorta di disprezzo nei confronti di chi rinnegava quella storia.

Rientrate in Italia anche a causa della rottura con Scalia, Mafai diventa collaboratrice dell’Unità, occupandosi di cronaca parlamentare e poi chiamata a dirigere “Noi donne” settimanale dell’Unione Donne Italiane, fondata per promuovere la mobilitazione politica delle donne. Questa esperienza durerà dal ’64 al ’69, quando deve abbandonare la testata per i contrasti con il partito con Ludi riguardo il suo stile di direzione.

Lei dette a questo giornale un taglio internazionale, quindi aprire un po’ le finestre, quindi parlare del Vietnam, parlare dell’Africa, degli Stati Uniti con corrispondenze, quindi aprire molto il giornale a queste cose. E poi ci furono anche delle grandi campagne del giornale per la pillola anticoncezionale, per la lotta a favore dell’aborto e del divorzio. La cosa però non venne vissuta in modo particolarmente favorevole dal Partito comunista e neanche dall Udi e a un certo punto le proposero di affiancarla da un comitato direttivo. Lei questa cosa assolutamente non la sopportò, prese alla porta e approdò a “Paese Sera”.

Nel ’76 Mafai partecipa con Eugenio Scalfari alla fondazione del quotidiano “La Repubblica”. Scrive articoli di taglio politico e sociale, diventando una delle firme più rappresentative, l’attività giornalistica è affiancata da un’intensa attività di scrittura che prende le mosse dal tentativo di interrogare in profondità la questione femminile. Tra la fine degli anni ’70 e la seconda metà degli anni ottanta, Mafai dedica due libri a questo tema, “Apprendistato della politica” e “Pane Nero”, nei quali ripercorre tappe e caratteri della partecipazione delle donne alla politica, a partire dalla seconda guerra mondiale. Il femminismo di Mafai rimane sempre ancorato all’obiettivo dell’emancipazione delle donne distante da ogni tentativo di tracciare differenze tra sessi, di costruire il politico su basi biologiche e di distinguere i diritti su basi di genere.

In realtà una grande combattente per i diritti delle donne, per i diritti civili, divorzio, aborto anticoncezionali, diritto al lavoro, non ha mai creduto però nel femminismo cosiddetto della differenza. È sempre stata una emancipazionista, cioè non ha mai creduto che ci fosse una specificità femminile da difendere, da tutelare, da promuovere. È sempre stata una “pari diritti, pari doveri”, “il mio cervello di donna esattamente è uguale al tuo cervello di maschio”. “Non credo che, in quanto donna, di essere meno portata per la matematica e per la fisica, non credo alla differenza tra maschi e femmine rispetto all’emisfero destro e all’emisfero sinistro. Sono per la totale ugualgianza” che era, diciamo, la cultura del suo tempo della sua epoca.

Ma non sono soltanto i temi del femminismo ad animare l’attività pubblicistica di Mafai. Ben presto subentra anche la pressante esigenza di interrogare la storia del PC e il senso stesso del comunismo italiano rispetto all’esperienza sovietica. Anche grazie alla relazione con uno dei più prestigiosi leader comunisti del tempo, Giancarlo Paglietta inizia una stagione di riflessione che passa da una serie di visite in Unione Sovietica, ma soprattutto dalla scrittura. Tra l ’84 e il ‘92 si impegna in due biografie, quella del dirigente comunista Pietro Secchia e quella di Bruno Pontecorvo, scienziato che aveva deciso di prestare la propria opera per l’Unione sovietica. Nei diversi percorsi di militanza di quelle due figure, Mafai cerca le chiavi interpretative per comprendere la storia stessa del comunismo.

In Pontecorvo è molto interessante questo passaggio, dall’essere un scienziato brillante apprezzato nel mondo occidentale e poi questa decisione tutta politica, lì sì tutta ideologica di passare al fronte opposto, di cambiare vita, di portarsi dietro la moglie e il figlio, è una roba, diciamo anche psicologicamente molto interessante, no? E se si ha personaggio più monolitico è sempre stato quello. Mia madre ha incontrato Bruno Pontecorvo, quando Pontecorvo in età avanzata è rientrato in Italia, da tenere presente che mia madre è molto amica di Gillo Ponte Corvo, il fratello di Bruno, il famosissimo regista. Naturalmente per mia madre è stato molto interessante anche descrivere l’ambiente dell ‘Unione Sovietica in quegli anni, quindi questa cappa, questa chiusura, questa riservatezza, questa opposizione e questa mancanza d’aria, ma anche questo comfort che veniva offerto, a chi sceglieva quella strada. Era molto interessata a capire come uno potesse scegliere quella roba là. Mia madre è andata molte volte in Russia al seguito di Pajetta e tutte le volte con una insofferenza clamorosa, perché naturalmente ogni volta che un dirigente comunista andava in visita si chiamavano i partiti fratelli e veniva affidato un interprete che di solito era anche una spia insomma che li seguiva con la scusa di fargli vedere questa cosa piuttosto quell’altra all’ermitage piuttosto che il museo Pushkin in realtà ne sorvegliava tutti i movimenti ma in realtà era molto insofferente di questa gigantesca clausura che rappresentava il mondo sovietico. Sicuramente anche in quei viaggi cominciò, diciamo, il tarlo della riflessione su quello che poi sarebbe diventato uno dei suoi libri, insomma forse più importanti, che era “il silenzio dei comunisti” che scrisse insieme ad Alfredo Reichner e Vittorio Foa.

All’indomani del crollo del muro di Berlino e con la trasformazione del PCI in partito democratico della sinistra, l’analisi dell’intera vicenda comunista si intensifica, con altri due libri, “Dimenticare Berlinguer” e “Botteghe oscure addio”. Mafai non mostra nostalgia, né rinnega un’esperienza che ha vissuto intensamente. Secondo lei, la storia ha certamente sancito la fine del comunismo internazionale ma la sua eredità non deve essere completamente disconosciuta né rimossa.

Questi due libri “Dimenticare Berlinguer” e “Botteghe Oscure Addio”, uno era lo smontaggio di questa mitologia comunista, come quando si rompe un giocattolo e il bambino interessato lo smonta pezzo a pezzo per vedere come è fatto e quando l’ha smontato non c’è più modo di rimetterlo insieme, però se ne capiscono bene anche i meccanismi, in fondo credo che sia questa l’operazione che lei ha fatto con questi due libri, allontanarsi da quella storia senza rinnegarla. È stata comunista, è stata tesserata, ci ha creduto, ma non ha mai rinnegato quella storia. In questi due libri c’è un po’ lo smontaggio, perché oggi si dice sempre che i fascisti non hanno fatto veramente i conti in Italia con il loro passato. Io credo che neanche i comunisti l ‘abbiamo fatto veramente fino in fondo. Mia madre c ‘è andata molto vicino, in questi libri in particolare “dimenticare Berlinguer”, “Botteghe oscure addio” e “Il Silenzio dei Comunisti”, su questo argomento il suo libro definitivo.

A cavallo tra i due secoli Mafai mantiene intatto il suo impegno pubblico, prima come parlamentare eletta alla camera dei deputati nella legislatura del ’94-’96, nella lista di alleanza democratica, quindi seguendo da vicino la fondazione del Partito Democratico. Per Mafai si tratta di iniziare una nuova storia, un nuovo percorso, che si è in grado di superare l’esperienza comunista, senza però disperdere il valore che aveva rappresentato. È un passaggio molto stretto, in un mondo in rapida e tumultuosa trasformazione, che non manca di riservarle qualche delusione.

Lei i suoi conti li ha fatti, e proprio perché li ha fatti i suoi conti ha creduto profondamente nel Partito Democratico perché pensava che il Partito Democratico potesse essere un ‘evoluzione di quella storia e che poi così non è stato soprattutto di problemi interni a quello che restava della Democrazia cristiana in parte del Partito comunista che in modo particolare a Roma si sono dilaniati in lotte intestine, eccetera. Lì è cominciato proprio la sua profondissima amarezza, negli ultimi anni della sua vita rispetto alla politica. Insomma, è abbastanza miserabile, in piccole lotte di potere. Questo la infastidiva molto e la addolorava anche molto. Lei è stata anche consigliere regionale e poi se ne è andata subito come è subito dal Parlamento. Allora dopo un anno piuttosto che due di legislatura avevano diritto a un vitalizio, non so, lei non l’ha voluto, l’ha rifiutato, le riusciva molto difficile accettare questa deriva della politica.
Una donna insomma che ha fatto della sua vita una continua attività politica e spesso dal suo racconto potrebbe sembrare che la politica sia stata la sua unica passione e invece ci sono state moltissime cose che Miriam amava, cose che possono apparire molto sorprendenti.

L’acqua le piaceva moltissimo, le piaceva moltissimo nuotare, è una che ha fatto immersioni subacquee per la prima volta in vita sua a 82 anni e ha fatto le gare di sci, la sua prima gara di sci a 50 anni, mi piaceva molto questo aspetto della vita. Si è occupata molto dei suoi nipoti e dei suoi bisnipoti, ha amato molto il cinema.

Miriam Mafai è stata molte cose, partigiana, giornalista, scrittrice e politica, una donna che non si è mai arresa e che ha fatto della passione civile la sua ragione di vita, una passione che non l’ha mai abbandonata. La politica per lei era tutto e si poteva fare anche fuori dai partiti e dalle istituzioni, senza il timore di desiderare tutto quello che voleva. Insomma, come ha scritto nell’incipit della sua autobiografia, “sono nata sotto il segno felice del disordine”.

Le figlie della Repubblica è una delle iniziative che trovate su fondazione degasperi.org, grazie al contributo di Fondazione Cariplo e al sostegno dell’Istituto Gentili. Nata da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzata da Wip Italia, è stato raccontato da me, Alessandro Banfi, ed è stato scritto e diretto da Emmanuel Exitu, con la super supervisione storica di Antonio Bonatesta è la collaborazione degli amici giovani della Fondazione de Gasperi nelle persone di Martina Bartocci, Jacopo Bulgarini, Miriana Fazzi, Federico Andrea Perinetti, Gaia Proietti, Luca Rosati, Sound Design di Valeria Cocuzza. Registrazione in studio di Marco Gandolfo, per una produzione Wip Italia.


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