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30 Gennaio 2023

LA SFIDA DI UNA LEGISLATURA COSTITUENTE

di Riccardo Caruso, ricercatore presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore

I precedenti tentativi di riforma

Nella legislatura da poco iniziata vedrà probabilmente la luce una nuova proposta di revisione costituzionale con lo scopo di affrontare il problema, tipicamente italiano, della stabilità del governo. Sul punto i partiti di centrodestra sono stati chiari fin dalla campagna elettorale: si preannuncia la nascita di una nuova bicamerale? Nella storia repubblicana già cinque volte si è tentato di riformare la costituzione per migliorare il processo legislativo o per rafforzare l’operato del governo. In un primo periodo, l’accordo tra alcuni partiti ha dato vita a tre commissioni bicamerali per le riforme costituzionali (Bozzi nel 1983, De Mita – Iotti nel 1993, D’Alema nel 1997), in seguito, il Governo Berlusconi nel 2006 e il Governo Renzi nel 2016 hanno provato a ottenere l’approvazione delle loro riforme con il referendum popolare. Ciascuna di queste iniziative si è rivelata un fallimento spesso a causa delle valutazioni politiche dei partiti o degli elettori. Tuttavia, il susseguirsi di questi tentativi evidenzia come l’esigenza di riforma non appartenga allo schieramento di centro-destra o di centro-sinistra, ma sia un’urgenza trasversale.

Le ragioni di una riforma in senso presidenziale

La maggioranza di governo è sicuramente orientata verso una revisione costituzionale in senso presidenziale, i cui contorni non sono ancora stati chiariti. Infatti, le opzioni teoriche sono diverse e devono essere adattate al contesto italiano. Se si esclude il modello presidenziale statunitense, tipico di uno Stato federale, è possibile, come oggi da più parti sostenuto, optare per un modello semipresidenziale alla francese, oggetto del “patto della crostata” del 1997 tra centrodestra e centrosinistra. Altra ipotesi è quella di mantenere la forma di governo parlamentare e rafforzare i poteri del Presidente del Consiglio, come già previsto dalla riforma del 2006. Sempre conservando il parlamentarismo, Fratelli d’Italia ha avanzato in campagna elettorale la proposta di introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Quest’ultima è l’ipotesi di riforma con gli effetti meno rilevanti sul piano dei meccanismi istituzionali, quali il procedimento legislativo e l’azione del governo; infatti, la principale conseguenza si riscontrerebbe sul piano meramente politico: dotare il capo dello Stato di una diretta legittimazione popolare. Solo una riforma organica chiara nello scopo e nel merito potrà modificare lo status quo.

Dallo stato dell’attuale dibattito politico non sono ancora emersi i dettagli della proposta di revisione, è possibile comunque identificare gli scopi generali che saranno perseguiti. Il principale tra questi si rinviene già nella discussione avvenuta in sede di assemblea costituente: la stabilità del governo. È celebre a tal proposito l’intervento di Piero Calamandrei del 5 settembre 1946, il quale fu tra i pochi a sostenere l’idea di repubblica presidenziale e sottolineò come il problema fondamentale delle democrazie sia quello di avere un governo stabile; egli, infatti, affermò che «se un regime democratico non riesce a darsi un governo che governi, esso è condannato». Le principali obiezioni a Calamandrei si fondarono sugli assunti, ancora oggi diffusi, che un governo forte al comando, espressione di una maggioranza netta, possa aprire la strada alla dittatura e che il modello presidenziale non sia adeguato al contesto politico italiano, caratterizzato dal multipartitismo. A queste opinioni Calamandrei obiettò che proprio dalla debolezza del Governo Facta, non appoggiato da una maggioranza solida, sorse il fascismo, perché «le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dalla impossibilità di governare dei governi democratici».

La necessità di un governo stabile capace di portare avanti il proprio programma nel corso della legislatura è, pertanto, il primo obiettivo di una possibile revisione costituzionale. Gli altri obiettivi ne sono un corollario. Infatti, un esecutivo del genere rafforzerebbe il ruolo internazionale dell’Italia nei confronti degli altri Stati e all’interno delle organizzazioni sovranazionali come l’Unione Europea. La continuità e la coerenza dell’azione internazionale di un governo aumenterebbero la sua credibilità e il suo ruolo negoziale, ad esempio, all’interno del Consiglio Europeo. Oltre al piano internazionale, un governo meno soggetto agli equilibri politicamente precari della maggioranza parlamentare sarebbe in grado di decidere secondo la propria agenda e di perseguire le riforme più impellenti. Questa conseguenza contribuirebbe, secondo alcuni, a restituire alla politica quel potere decisorio oggi in larga parte prerogativa del mondo economico-finanziario e mediatico.

Infine, vi è un argomento in favore della riforma in senso presidenziale che fa leva sulla Costituzione materiale. In questa prospettiva, la nostra Repubblica sta vertendo verso un assetto presidenzialista attraverso due direttive. La prima si manifesta nel ruolo sempre più politico del Capo dello Stato nella formazione del governo e nel controllo dell’esecutivo, specialmente quando dalle elezioni non è emersa alcuna maggioranza netta. La seconda, invece, si rivela dalla primazia del ruolo del governo, i cui decreti-legge e decreti ministeriali sono sempre più rilevanti rispetto alla funzione legislativa del Parlamento. Tutto ciò è conseguenza dell’instabilità del quadro politico, caratterizzato da partiti distanti tra loro e non più in grado (anche a causa della mediocrità della classe dirigente) di esprimere istanze comuni attorno alle quali costituire una maggioranza. Secondo i fautori del presidenzialismo, è arrivato il momento di formalizzare e istituzionalizzare questo tipo di assetto.

Il parlamentarismo è l’unico modello possibile?

Alcune opinioni sfavorevoli al modello presidenzialista si riscontrano in assemblea costituente negli interventi di Costantino Mortati, il quale ha evidenziato che occorre distinguere tra stabilità formale e stabilità sostanziale. Secondo questa distinzione, la stabilità del governo non si esprime nella continuità delle persone fisiche poste al comando, ma nel coordinamento tra potere esecutivo e legislativo che assicuri all’indirizzo politico emerso in Parlamento di concretizzarsi nell’azione dell’esecutivo. Il legame armonico tra i due poteri sarebbe maggiormente garantito quando il governo, grazie al voto di fiducia, è diretta derivazione del Parlamento, piuttosto che del voto popolare, in Italia tipicamente soggetto a fluttuazioni. Nella prospettiva parlamentarista, infatti, la volatilità e la frammentazione del quadro partitico italiano non potrebbero conciliarsi con un modello presidenzialista che necessita di due tornate elettorali come quello americano, dove spesso all’esito delle midterm il presidente non può contare sulla maggioranza in entrambe le camere, oppure con un modello semipresidenzialista alla francese, dove può verificarsi la “coabitazione” nel caso in cui il presidente risulti espressione di uno schieramento diverso da quello della maggioranza formatasi in Parlamento.

L’esempio di ciò che accade nel contesto statunitense e francese mostra come anche il modello presidenzialista, così come quello parlamentare, possa portare all’immobilismo del governo e all’ingovernabilità. Allo stesso modo, in entrambi i sistemi possono verificarsi casi in cui non è pienamente soddisfatto il criterio della rappresentatività: così come nel presidenzialismo può insediarsi un esecutivo che nel corso del suo mandato cessa di rappresentare la maggioranza dei cittadini, anche nel parlamentarismo possono formarsi governi che nel corso della legislatura non siano più rappresentativi della maggioranza del corpo elettorale. Il confronto tra parlamentarismo e presidenzialismo si gioca, dunque, sull’interpretazione dei criteri di rappresentatività e governabilità, che comunque nessuno dei due modelli riesce ad assicurare.

Ulteriori ragioni di avversione al presidenzialismo non vanno trovate nella critica giuridica al modello istituzionale, ma nell’immaginario collettivo. L’idea di un governo del presidente suscita in molti il “pericolo dell’uomo forte al comando” non facilmente sostituibile, come invece è possibile nel parlamentarismo mediante la mozione di sfiducia o l’intervento del Presidente della Repubblica. Similmente, il presidenzialismo fa emergere il rischio derivante dall’accentramento di potere, che si è manifestato nei periodi emergenziali con atti governativi che non si sono confrontati con l’aula del Parlamento. Ma, soprattutto, è la stessa idea di “grande riforma” costituzionale che viene avversata per paura o per mancanza di sensibilità da parte dell’opinione pubblica, nonostante nei suoi 75 anni di vita la Costituzione sia stata cambiata più volte anche in maniera sostanziale, da ultimo con la riduzione del numero dei parlamentari.

Una legislatura costituente

Il dibattito e le vicende che hanno preceduto la scelta dei padri costituenti della forma di governo parlamentare insegnano come il diritto non possa mai essere considerato avulso dal contesto storico e politico. Il fallimento dell’opzione presidenzialista è infatti anche frutto, secondo la testimonianza di Giuseppe Dossetti, dell’intento di De Gasperi di scongiurare l’elezione di un Presidente proveniente dal blocco socialcomunista. Il fallimento dei tentativi di riforma successivi sono stati causati dallo stesso motivo: evitare che il proprio avversario si possa dotare della autonomia e stabilità di un governo presidenziale. Oltre tutto, le stesse motivazioni hanno reso lettera morta l’ordine del giorno Perassi che auspicava l’introduzione di «dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo», al quale non si è mai dato seguito, nonostante il consenso trasversale di tutte le forze politiche (fu approvato con 22 voti favorevoli e 6 astenuti nella seduta del 5 settembre1946). L’esigenza di prevedere un governo forte e stabile, perciò, da sempre contraddistingue i diversi schieramenti politici, come dimostrato dagli ultimi tre tentativi: quello del 1997 (csx e cdx), del 2006 (cdx) e del 2016 (csx). 

La domanda di governabilità è sempre più evidente alla luce della sfiducia dei cittadini nei confronti della politica, la quale non sembra più in grado di affrontare le grandi crisi susseguitesi negli ultimi anni. Molti non credono che la politica possa avere un impatto nelle lore vite. Questo sentimento di rassegnazione emerge sia nell’astensionismo delle ultime elezioni, sia nell’affidamento che di volta in volta si ripone nei governi tecnici, composti per la maggior parte da personalità esterne ai precedenti esecutivi instabili. È chiaro, pertanto, che la domanda di riforma nella direzione della stabilità di governo sia presente nella società.

I membri dell’attuale legislatura, che si preannuncia costituente, riusciranno non solo ad essere all’altezza di coloro che li hanno preceduti, ma addirittura a completare quel percorso che già più volte è stato tentato? A questo fine, chi propone la riforma non potrà rinunciare al metodo “popolare” grazie al quale avviare un dibattito nel merito della scelta fra i due modelli di governo e che coinvolga le diverse componenti della società civile. Tale dibattito dovrà partire dall’esigenza comune di stabilità che si è manifestata nella storia repubblicana, così da permettere la nascita di una proposta che non appaia espressione di un unico schieramento politico. Se c’è una lezione che ci insegna la nascita della nostra Repubblica è che solo da una cultura politica non fondata sull’autoaffermazione di una parte, ma sul senso di responsabilità, potrà nascere un confronto fertile e plurale capace di delineare i fondamenti dell’Italia del futuro.


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