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27 Ottobre 2020

Blangiardo (Istat): “Con il Covid nascite ai nuovi minimi. Scenderemo sotto 400 mila, il welfare deve cambiare”

Riportiamo l’intervista di Federico Fubini pubblicata sul Corriere della Sera / L’Economia a Gian Carlo Blangiardo, presidente Istat e membro del comitato scientifico della Fondazione De Gasperi. 

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Gian Carlo Blangiardo, 71 anni, demografo, presidente dell’Istat dal 2019, ha notato una stranezza: nove mesi dopo l’arrivo della nube tossica di Chernobyl, nel maggio del 1986, la natalità in Italia è calata (temporaneamente) del 10% rispetto alla norma di quel periodo. Gli italiani avevano reagito all’incertezza e alla paura rinviando le scelte di procreazione.

Presidente, il Covid innescherà lo stesso effetto, magari moltiplicandolo?

«In Italia abbiamo una tendenza che dura dal 2009, con un calo di circa un quarto delle nascite da allora. Già gennaio 2020, prima della pandemia, ha un calo dell’1,5% rispetto a un anno prima. Vedremo dai dati di dicembre quanto la paura avrà inciso, a partire da marzo. Contano anche l’incertezza sul lavoro e le difficoltà della vita quotidiana, che inducono le persone a posticipare il momento di avere un figlio fin quando magari diventa tardi. Fare previsioni è difficile, ma temo che nel 2021 potremmo scendere sotto le 400 mila nascite».

Erano più di un milione nel 1964, 576 mila nel 2008.

«Da notare che il declino riguarda anche la popolazione straniera. L’immigrazione oggi porta 62 mila nati all’anno, dopo essere arrivata a 80 mila. Ma aldilà dei fattori congiunturali — la crisi, la pandemia — in Italia c’è soprattutto un effetto strutturale, perché si sta riducendo il numero di persone in età feconda. I nati all’apice del baby boom oggi hanno 56 anni. Le generazioni in età riproduttiva saranno sempre più ristrette».

Come reagire?

«Dobbiamo rendere compatibili lavoro e maternità, con un maggiore coinvolgimento dei padri».

Più congedi di paternità?

«C’è anche un aspetto culturale. Ci siamo sempre illusi che dovesse essere lo Stato a risolvere il problema con un bonus, un aiuto, una legge. Invece occorre coinvolgere su questa vera e propria emergenza anche altri attori: il non profit o le imprese, che possono offrire ai dipendenti il servizio di asilo nido. Non è paternalismo, è un investimento. Stiamo prendendo coscienza del problema solo ora, iniziamo a capire che se non facciamo niente la questione diventa veramente problematica per il welfare».

Che intende dire?

«Oggi abbiamo 33 ultrasessantacinquenni ogni cento soggetti in età attiva. Tra trenta o quarant’anni questo numero raddoppia, dunque raddoppia anche la fetta delle pensioni in proporzione al prodotto interno lordo. A quel punto o raddoppiamo la torta, ma sappiamo che non è così semplice…»

Oppure non ci saranno soldi per scuola o sanità?

«…oppure dovremmo tagliare altre cose, è inevitabile. Questa è la guerra tra poveri che sarebbe bene evitare. Ormai c’è una certa consapevolezza del problema. Ma anche resistenza nel prendersi la responsabilità di fare qualcosa per risolverlo».

Il Covid sta rovesciando il paradigma per cui in Italia la speranza di vita migliora più a Nord che a Sud?

«Senz’altro c’è una fortissima variabilità nei territori. A Roma o a Agrigento la mortalità quest’anno scende rispetto al 2019, mentre per Bergamo o per la Val d’Aosta naturalmente è vero l’opposto. Certo la speranza di vita riflette sempre i dati più recenti, ma è solo una proiezione statistica. Detto questo, l’effetto Covid dovrebbe produrre certo un numero di decessi drammatico, ma non enorme nel confronto storico. Non sono i 600 mila morti della febbre spagnola, per capirci».

Che cifre ha in mente?
«Abbiamo fatto delle simulazioni, immaginando diversi scenari. Si va dai 40 mila morti in più rispetto al 2019 agli 80 mila, ma in quest’ultimo caso solo con una seconda ondata che aumenti del 50% il rischio di morte per gli anziani».
Lo scenario centrale è di 60 mila morti in più?

«In teoria sì. Ma la seconda ondata, se ci sarà — speriamo di no — sarà meno dura dal punto di vista della letalità. Abbiamo capito come gestire meglio questo fenomeno. Noi all’Istat stiamo lavorando, con l’Istituto Superiore di Sanità e alcune università, per mettere in piedi un sistema di monitoraggio per identificare in fretta i focolai e segnalarli. Anche avere 40 mila morti in più sull’anno prima è drammatico, chiaro, ma sarebbe sempre meno di quanto è successo nel 1956 o anche nel 2015 rispetto agli anni precedenti».

La fuga dei giovani all’estero frena l’economia. In questo la riduzione della mobilità dovuta a Covid può aiutare?

«Prima del Covid, spesso il Paese non era in grado di dare un futuro ai giovani. Stupidamente investiva su di loro, li formava e li regalava al resto del mondo. Anch’io ho una figlia a Londra. Ora i giovani sono a casa, ma solo perché la mobilità si è bloccata. La scommessa sarà riuscire a creare condizioni che consentano loro di restare anche dopo per la ricostruzione. Altrimenti andranno a fare la ricostruzione degli altri Paesi».

I dati dell’occupazione durante la pandemia dicono che sono sempre i giovani a pagare.

«Sono le fasce meno protette, che si fanno carico di tutta la flessibilità. Credo che la parola magica sia opportunità. Magari con regole un po’ più adatte non a licenziare o a sfruttare, ma a dare a ciascuno la possibilità di trovare il posto giusto».


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