di Luca Bellardini (Associazione Guido Carli)
La civiltà industriale era in pericolo – non solo in Europa – già da prima che si diffondesse il Covid-19. Le recenti misure di limitazione alle attività produttive sono soltanto l’ultimo degli esempi. È decisamente inopportuno che chi scrive, del tutto ignorante in campo medico, ne discuta l’adeguatezza sul piano sanitario. Eppure, alcune considerazioni di ordine economico possono – forse devono – essere tracciate. Soprattutto, le misure di oggi andrebbero analizzate guardando a una storia nobile che abbiamo cominciato a calpestare: l’epopea, appunto, della rivoluzione industriale.
Partiamo da quello cui stiamo assistendo in questi giorni, perfettamente rappresentato nella stessa pagina di giornale (Corriere della sera di sabato 4 aprile) da Angelo Panebianco e Pierluigi Battista. Da un lato bisogna fare i conti con l’oggettiva debolezza in materia economica della classe politica italiana nel suo complesso, peraltro dominata da sentimenti ostili al libero mercato e in alcuni casi favorevoli alla c.d. «decrescita»: spesso alberganti in coloro che non hanno mai messo piede in una fabbrica, né hanno idea di come funzioni una filiera e si produca ricchezza. Questa forma mentis induce una visione “distribuzionista” dell’economia: come se l’output fosse disponibile in una quantità prefissata e il compito della politica fosse di decidere come assegnarne le porzioni; o come se – peggio – le autorità fossero legittimate a decidere le dimensioni della torta e l’identità dei pasticcieri. Inoltre, sta prendendo sempre più piede un’idea “millenaristica” dell’emergenza legata al virus: quasi che l’Occidente dovesse espiare la colpa di essere ricco e avanzato, innamorato dei viaggi e delle feste, desideroso di non fermarsi mai. Ad ogni catastrofe che distorca l’ordinato corso delle nostre vite libere – sia essa un terremoto o un attacco terroristico – spuntano fuori questi «apocalittici», come li avrebbe definiti Umberto Eco. La storia ci insegna che costoro possono anche avere successo, se si innestano su di un substrato sociale caratterizzato da un notevole livello di sviluppo: così accadde a fra’ Girolamo Savonarola, il predicatore pauperista che a Firenze interruppe la signoria medicea godendo – almeno inizialmente – di amplissimo consenso. Ma la storia ci insegna pure che nel lungo periodo prevalgono gli «integrati»: coloro che appoggiano il cambiamento e decidono di governarlo, anziché opporvisi per distruggerlo. La vita precedente deve tornare, come a Firenze tornarono i Medici.
La rivoluzione industriale, invece, ha impresso nella società europea una visione “creazionista” del progresso materiale e anche della conoscenza. Quanto già c’era poteva essere ampliato o modificato; quanto ancora non c’era poteva essere creato: questa la convinzione figlia dei fermenti scientifici del XVII secolo e delle dottrine illuministe. Oggi gli «apocalittici» fanno molta confusione tra individualismo ed egoismo: li sovrappongono, ignorando che solo il secondo è un vizio e che – anzi – la virtù del primo si è storicamente affermata in un’epoca in cui le relazioni sociali tra i singoli sono molto cresciute. Lo osserva con grande acume Thomas S. Ashton, lo storico inglese che per primo mise in discussione le critiche moraleggianti di cui era investita la grande trasformazione economica (1760-1830, nella sua periodizzazione): in quegli anni presero piede i club in Inghilterra e i caffè nel resto d’Europa, cioè i luoghi nei quali la borghesia produttiva si confrontava apertamente, facendo nascere tante idee imprenditoriali e – soprattutto – una nuova classe intellettuale slegata dall’aristocrazia (quest’ultima, invece, si crogiolava spesso nell’ozio deridendo il lavoro manuale).
Oggi, come sappiamo, bar e ristoranti sono chiusi. E prima, invece? Erano affollati, ma in pochi attribuivano loro la funzione che ebbero in quell’epoca. Sembra inevitabile che, dopo questa crisi, il virtuale si diffonda sempre più: per le riunioni di lavoro, per gli incontri sentimentali (c’è un problema demografico!), anche per i semplici scambi di idee. La prospettiva di una connettività diffusa ma fondata “orizzontalmente” sulla quantità – anziché sulla profondità “verticale”, come nella prima fase della rivoluzione informatica – dovrebbe quantomeno instillarci dei dubbi sui rischi che pur si celano dietro le «magnifiche sorti e progressive» della digitalizzazione.
Poi c’è il tema delle fabbriche come luoghi di produzione. Quanti stabilimenti hanno chiuso i battenti negli ultimi anni, anche prima della recessione del 2008-2009? Francamente troppi perché questo discenda solo dal fisiologico spostamento dell’economia dal secondario al terziario, o magari dall’inquinamento alla sostenibilità ambientale (qualcosa di auspicabile, è ovvio). Anzi, in molti Paesi europei ha fatto scalpore solo la decisione di limitare i business più antistorici e forieri di esternalità negative, come l’estrazione del carbone: si pensi agli scioperi selvaggi fronteggiati per quasi un anno dal governo di Margaret Thatcher. Silenzio assoluto, invece, sulla disinvoltura con la quale molti governi hanno assoggettato interi settori a una regolazione asfissiante: a cominciare da quello creditizio e dei servizi d’investimento, che – va da sé – ha un ruolo imprescindibile nel finanziamento delle attività capital-intensive. Non si tratta soltanto delle norme ambientali: risolvere il trade-off tra lavoro e salute è quasi impossibile, come ci ricorda la vicenda dell’Ilva di Taranto. Questo, purtroppo, è il lato oscuro dell’aver compreso che il pianeta ci è solo dato in prestito. Ma se guardiamo allo scambio anziché alla produzione, notiamo che il protezionismo è tornato un’opzione praticabile; e oggi, nonostante il revival dei dazi, si manifesta soprattutto nelle barriere qualitative che impediscono ancora a troppi prodotti di avere standard compatibili tra i vari ordinamenti, anche all’interno del Mercato unico europeo (il principio Cassis de Dijon e il marchio CE dovrebbero ovviare a questo, ma la realtà è spesso diversa).
Al contrario, quella che vediamo emergere è la c.d. sharing economy. Già il nome esprime l’allentamento di quei diritti di proprietà che avevano reso possibile il miracolo produttivo del tardo Settecento: si pensi alle enclosures fondiarie inglesi, che – ponendo fine a un sistema quasi sempre dotato di un assetto collettivistico – consentirono l’accumulazione del capitale e, dunque, la destinazione di ingenti risorse agli investimenti industriali. Peraltro, all’interno della contemporanea «quarta rivoluzione industriale», la sharing economy sancisce la preminenza del digitale sull’automazione: la diffusione dei robot che immaginavano i nostri nonni è ben lungi dall’essersi realizzata, come se una mentalità neo-luddista avesse preventivamente sconsigliato di spingersi troppo in là. La celebre profezia degli anni Sessanta sui telefoni («nel Duemila faranno tutto loro») si è invece realizzata.
Eppure, oggi non osserviamo significativi incrementi di produttività; anzi, addirittura vediamo gli individui più distanti e l’etica del capitalismo indebolita: rispetto all’epoca descritta da Ashton, tutti rischiano meno. I capitani d’industria si sentono protetti da una concezione della crisi d’impresa che è sempre più favorevole alla conservazione del compendio aziendale, allentando così quello spirito di conquista dell’ignoto che tanto piaceva sia agli empiristi scozzesi (tra i primi a sistematizzare il liberalismo economico) sia, più tardi, a Schumpeter con la sua «distruzione creatrice». I consumatori, dal canto loro, si sentono particolarmente tutelati da un assetto giuridico che è ormai invariabilmente dalla loro parte: vale per i beni materiali come per i servizi, a partire da quelli finanziari. E una minore “propensione al rischio”, prima di abbattere il livello degli investimenti, infiacchisce l’attività intellettuale: quella derivante dalla messa a frutto del “capitale umano”. Per lungo tempo la ricerca tecnica e scientifica si è potuta esprimere senza vincoli (basti pensare al regime amministrativo speciale di cui hanno sempre goduto le università), garantendo un’adeguata remunerazione a chi la promuovesse; oggi, invece, deve fare i conti con mille pastoie burocratiche. E se lo shock negativo ai trasporti cagionato dal virus sarà persistente, lo scenario non potrà che peggiorare.
In tutto questo, che cosa può fare l’Europa? Innanzitutto, un passo indietro sull’implicito favor accordato negli ultimi anni al digitale rispetto all’economia che potremmo definire “sonante” (il termine richiama l’ambito monetario: non è un caso). La soluzione non è mai fiscale: sono intrinsecamente distorsivi – per esempio – tanto la web tax quanto il limite agli sconti sui libri, pensato per arginare lo strapotere della grande distribuzione online rispetto alle librerie fisiche e magari indipendenti. Piuttosto, bisognerebbe aggiornare un single rulebook commerciale che è stato concepito nell’era analogica; e questo vale anche per la regolazione del c.d. FinTech. I colossi del Web riescono a operare su base transfrontaliera con grande efficienza e ottima redditività: più che limitare loro, andrebbero tagliati quei «lacci e lacciuoli» che imbrigliano tante piccole e medie imprese.
Prendiamo il tema della concorrenza: il rigidissimo ordinamento antitrust americano nacque espressamente per l’economia reale, quando – alla fine dell’Ottocento, in piena «seconda rivoluzione industriale» – era diventato insostenibile lo strapotere di alcuni conglomerati manifatturieri, in particolare nei settori petrolifero e siderurgico. Per lungo tempo l’Europa ha preferito un approccio più morbido, in grado appunto di favorire il decollo industriale: da alcuni anni, invece, la Commissione si è mostrata particolarmente attiva nella difesa della concorrenza, e non solo contro le grandi società in cerca di acquisizioni. Anzi, ha addirittura agito con notevole discrezionalità, mostrando di anteporre gli interessi particolari degli Stati a una visione chiara e unitaria del governo dell’economia. Si guardi alla maniera decisamente “elastica” in cui viene interpretata la disciplina degli aiuti di Stato: il consorzio Airbus ha potuto ricevere finanziamenti diretti dai governi francese e tedesco, mentre all’italiana Tercas è stata proibita un’operazione sostanzialmente di mercato (prima che, negli ultimi mesi, tornasse in auge l’intervento pubblico per ricapitalizzare le banche).
Inoltre, lo sviluppo industriale europeo trova un limite anche nelle regole di finanza pubblica, là dove non viene fatta alcuna distinzione fra la spesa pubblica corrente e quella per investimenti. Col risultato che i governi sono sì meno prodighi di un tempo (bene!), ma impiegano peggio i loro denari. Adottare una regola contabile che valorizzi le finalità della spesa – c.d. golden rule – è decisamente la strada, soprattutto in un contesto nel quale sembra finalmente possibile l’emissione di un titolo di debito europeo – c.d. solidarity bond o coronabond – per fronteggiare la recessione da Covid-19 con investimenti mirati, dalle infrastrutture alla sanità. Ne ha parlato qui, proprio su questo sito, Federico Carli.
Salvare la rivoluzione industriale significa salvare la globalizzazione. Evitare che la prima venga calpestata significa fare in modo che la seconda continui a garantire il progresso, proprio come negli anni 1760-1830 e anche in seguito, durante la Belle Époque tristemente spezzata dalla Grande Guerra. D’altronde, non è azzardato accostare il ventennio compreso tra il crollo del Muro di Berlino e quello di Lehman Brothers (1989-2008) alla signoria di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico. Non è neppure sbagliato stabilire un parallelo ideale fra il declino economico degli ultimi anni e il rapido passaggio di Piero il Fatuo al vertice di Firenze. A questo punto, però, la tirannia del Savonarola corrisponderebbe al periodo attuale: caratterizzato dai movimenti spesso definiti “populisti”, di cui abbiamo osservato il climax nel 2016 con le vittorie dei sostenitori della Brexit e di Donald Trump. Gli «apocalittici» – che identificano nella pandemia una punizione divina, puntando sulla decrescita anziché sugli investimenti e la produttività – si inserirebbero perfettamente in questo paradigma.
La Comunità europea nacque dal carbone e dall’acciaio; oggi dovrebbe muoversi nella direzione di una green economy che produca sviluppo; ma di fatto è immobile. Ridare slancio al «sogno europeo» – fondato sulle opportunità per i cittadini e le imprese – è ormai un imperativo categorico cui né le istituzioni di Bruxelles né gli Stati membri dovrebbero sottrarsi, nemmeno se in mezzo c’è il «nemico invisibile». Lo dobbiamo anche a chi – dopo una vita di sacrifici, magari dopo aver visto il «miracolo economico» del dopoguerra – in questi giorni se ne è andato tra le macerie di un’Europa che ha smarrito la sua vocazione industriale, dunque la sua anima.