di Mattia Albanese
La pandemia che stiamo vivendo potrebbe lasciare una traccia indelebile nelle economie dei paesi industrializzati. La crisi potrebbe portare alla fine del capitalismo come lo conosciamo oggi, ma potrebbe anche garantirne la salvezza.
L’arrivo del coronavirus in Europa porta con sé poche certezze, ma sicuramente tra queste c’è quella che le conseguenze del suo passaggio dureranno a lungo. È vero per la sanità come per l’economia: per evitare però che il cambiamento ci travolga senza essere preparati è necessario studiare, sin da subito, come la crisi investe le strutture e le regole che regolano il nostro stare insieme e come questi cambiamenti sono percepiti. Anche quando, finalmente, le misure di distanziamento sociale potranno essere allentate e le nostre vite torneranno ad una forma di normalità, una traccia rimarrà nelle istituzioni e nel modo in cui i cittadini si rapportano ad esse: è per questo che è necessario considerare l’epidemia che stiamo vivendo come un vero e proprio spartiacque della storia contemporanea.
Sarebbe facile lanciarsi in previsioni più o meno prive di fondamento riguardo all’entità e la scala dei cambiamenti futuri, ma forse è ben più importante capire quali fondamentali della nostra società rischiano di indebolirsi a causa della crisi esistente. Guardare, in maniera comparativa, al modo in cui varie nazioni stanno fronteggiando l’emergenza può aiutarci a riflettere, in assenza di dati, sui fenomeni che stiamo vivendo e sull’unicità dei vari sistemi istituzionali che tentano di fronteggiare l’espansione dell’infezione. La limitazione delle libertà fondamentali a cui stiamo assistendo costituisce un’eccezionale occasione per capire se e come le economie di mercato possono giustificare la temporanea ma, per alcuni, ingiustificabile negazione dei loro principi fondanti: la divisione dei poteri, le libertà individuali, la partecipazione democratica e, in misura ugualmente importante, il libero scambio.
Sono due i pilastri su cui si fonda l’ordine economico e sociale a cui siamo abituati e che ora è scosso dalla pandemia globale: il mercato, l’istituzione per eccellenza in termine di allocazione delle risorse, e l’autorità, intesa come potere politico ma anche come organizzazione gerarchica e burocratica della società in diverse funzioni. Così come, all’interno del libero mercato, gli scambi sono armonizzati grazie al meccanismo dei prezzi, le nostre istituzioni politiche si reggono sul principio di autorità. La democrazia nasce e resiste grazie all’equilibrio di queste due forze contrastanti: il mercato è infatti una forza distruttiva, che attraverso la garanzia di libero accesso mette in moto la distruzione creativa di cui scrive Joseph Schumpeter, grande teorico del capitalismo e della sua evoluzione. In questo modo il capitalismo moderno ha contrastato e limitato l’autorità, abbattendo tutte le forme di potere consolidato e facendo sì che la concorrenza, intesa in termini economici, si trasformasse in partecipazione, da intendersi, invece, in chiave democratica. La burocrazia, che certamente è nemica di questa radicale trasformazione in quanto si basa sulla concentrazione, categorizzazione e preservazione dell’autorità, è al tempo stesso una struttura necessaria al corretto funzionamento e regolamento del mercato.
Ma cosa c’entra Schumpeter con il coronavirus? Non molto, anzi nulla. Ed è qui il problema: i meccanismi attraverso cui la nostra società si è regolata fino ad ora potrebbero non essere sufficienti a gestire la incredibile emergenza di una pandemia globale. L’epidemia che stiamo vivendo in queste settimane è un problema complesso: se la ricerca di una soluzione deve avvenire attraverso la combinazione di metodologie e discipline diverse, la gestione e la condivisione di una enorme quantità di informazioni ci impone di pensare non semplicemente in termini di rischio, ma di incertezza. Affrontare l’ambiguità radicale di uno scenario di questo tipo è estremamente difficile attraverso gli strumenti del mercato: la decentralizzazione delle decisioni non genera efficienza, ma entropia e, soprattutto, la capacità decisionale degli individui è inibita a causa dell’assenza di informazioni. La tentazione sarebbe quella di trovare la soluzione spostando il baricentro del nostro sistema politico verso meccanismi autoritari di decisione. Accentrare le decisioni nelle mani di pochi può aiutare a garantire maggiore efficacia nella coordinazione e nella gestione delle risorse, ma impone costi enormi in termini democratici e sociali. Costi che, nel lungo termine, potrebbero diventare maggiori dei benefici. La gestione della conoscenza e dell’informazione in un sistema autoritario potrebbe risentire dell’assenza di pluralità e, anche in questo caso, concorrenza nell’informazione.
Uno dei maggiori esperti nell’ambito dell’organizzazione sociale e aziendale, Paul Adler, ha dedicato gran parte della sua attività di ricerca allo studio di un terzo meccanismo di coordinamento istituzionale: la fiducia. È proprio questo lo strumento di cui abbiamo più bisogno per affrontare la crisi e le sue conseguenze. Parlare di fiducia non è soltanto un artificio retorico: significa invece realizzare che le nostre istituzioni, in momenti difficili, devono rispondere al bisogno di autorità, ma anche a quello di comunità.
Esistono vari tipi di fiducia: quella iterativa, che nasce dalla consuetudine che abbiamo con le persone che ci circondano e che garantisce la normalità della vita quotidiana. Nelle istituzioni complesse del mondo moderno, come i mercati, questa forma “primordiale” di fiducia (tipica infatti delle società primitive) si unisce alla fiducia generata dalla convenienza e dall’utilità: il mercato stesso ha bisogno di fiducia e sicurezza per garantire le sue funzioni. Chi si impegnerebbe negli scambi senza avere, ad esempio, fiducia che le autorità garantiranno il suo diritto alla proprietà privata?
C’è poi una terza forma di fiducia, quella normativa o valoriale. Si fonda nella convinzione che i membri della società condividano un sistema di norme, non perché ne abbiano bisogno, ma perché sostenuti da un criterio di giustizia collettiva. È di questo tipo di fiducia che abbiamo bisogno ora. È questa fiducia che regge la complessa impalcatura che tenta di arginare il virus e che trapela dietro il trend topic #iorestoacasa.
E’ questa l’opportunità che, in maniera paradossale, ci viene donata dal virus: le sfide del futuro richiedono il passaggio da una razionalità utilitaristica ad una riflessiva, che valuti le conseguenze sociali delle azioni dei singoli. Proprio la fiducia potrebbe essere la chiave necessaria per la soluzione di molti problemi dell’economia in cui viviamo. La crescente disuguaglianza che caratterizza le economie dei paesi industrializzati ha suscitato l’attenzione di molti analisti e ricercatori: Martin Wolf, una delle firme più importanti del Financial Times, definisce questo sistema rigged capitalism, cioè capitalismo truccato. Un sistema in cui la concentrazione delle risorse nelle mani di pochi sta garantendo profitti anormali e ingiustificati. Questa lettura, evidente ad esempio negli scritti dell’economista francese Thomas Piketty, rintraccia il sintomo evidente della crisi nell’increment o crescente delle rendite capitali rispetto al ritorno del lavoro. Lo aveva intuito anche Schumpeter, che nella seconda parte del saggio “Il capitalismo può sopravvivere?”, parla della burocratizzazione del capitalismo, ossia nella sua cristallizzazione in forme autoritarie.
Combattere l’idea che al rentier capitalism non ci sia alternativa e fare in modo che il mercato torni a produrre ricchezza per i molti e non per i pochi è possibile, ma richiede la transizione da una concezione utilitaristica o relazionale della fiducia ad una lettura normativa. La forza della distruzione creativa può nutrirsi di questa fiducia e tornare ad aggredire le concentrazioni di potere (anche di mercato) che più che mai oggi sono nocive. Basta pensare alla rilevanza attuale della knowledge economy per il mondo in cui viviamo, per capire, come ci indica Paul Adler, che il rischio che questa conoscenza si concentri nelle mani di pochi (e quindi generi ricchezza per pochi) è enorme. Nell’era dell’informazione sarà cruciale fondare la condivisione delle informazioni alla base della nascente sharing economy nella fiducia condivisa verso un sistema di valori che ne garantisca il suo corretto utilizzo.
Mai come oggi abbiamo l’opportunità di comprendere che siamo una comunità fondata in un ideale di giustizia redistributiva e nella promessa della prosperità che nasce dal cambiamento e dell’innovazione. Questa fiducia, che alcuni chiamano riflessiva, non è frutto di pura speculazione. È già ora una componente fondamentale delle nostre interazioni sociali: come potremmo spiegarci, altrimenti, le azioni dei tanti che in questi giorni lavorano e si sacrificano per combattere l’epidemia negli ospedali, nelle strade e nelle loro case?