di Francesco De Santis
Il processo d’integrazione europea è un tema che sta acquisendo sempre maggiore attualità per una serie di contingenze in cui lo scontro tra nazionalisti ed europeisti è al centro del dibattito politico nazionale e non. Un processo, quello di integrazione europea, che ha vissuto varie fasi e che muove dall’assunto di dover preservare il futuro dell’Europa dai disastri che le guerre mondiali hanno portato e lasciato nel continente. È chiaro come il pensiero di far nascere un’unione continentale non sia stato frutto di un semplice status mentale ma il crescente seme di un’idea perpetuata anche da Dante, Voltaire e Kant. Quest’ultimo affidava al concetto di unione europea il compito di propugnare una pace perpetua che ponesse il continente lontano dalla minaccia di rinnovati conflitti.
Essendo un processo non lineare e sottoposto a cambiamenti di
contesto e a motivazioni profondamente ramificate, il processo d’integrazione europea è in continuo divenire e nulla è stato, è e sarà scontato. È un processo vivo che ha vissuto una serie di alti e bassi in cui a recitare un ruolo da protagonisti sono stati i valori, condivisi dagli stati europei, per superare le ideologie totalitarie.
Ma, dopo oltre 70 anni di pace, ha ancora senso continuare a credere in un’Europa unita?
L’anno corrente segna l’inizio di un decennio in cui l’Europa deve decidere “cosa vuole fare da grande”.
Non è più in discussione, oggi, il ruolo centrale che l’Unione Europea gioca per la sopravvivenza della governance democratica ma è di stringente necessità ricorrere a nuove forme di cooperazione continentale per giocare un ruolo da reale “global player” all’interno delle grandi sfide globali che appaiono sulla scena internazionale. La questione America/Cina, il medio Oriente e le sue continue problematiche, l’Africa, i Balcani sono tematiche che vanno affrontate con senso di responsabilità dal “vecchio continente”.
La cooperazione politica, conquista Europea, non sembra, però, più essere sufficiente e, in virtù delle nuove sfide che il mondo globalizzato impone, appare importante riuscire a mostrare certezze, a riaffermare la conoscenza e l’educazione europea e, soprattutto, coordinare una politica estera in grado di garantire sicurezze. Kierkegaard parlerebbe di un “retrocedere avanzando”, ovvero essere consapevoli dell’eredità lasciataci dai padri fondatori dell’Unione Europea per poter tramandare il seme che possa germogliare nel corso del tempo che scorre. Partire dal multilateralismo, dalla democrazia rappresentativa, dal welfare universalistico, dal mercato libero e solidale per gettare lo sguardo oltre l’orizzonte.
Ma qual è il punto di partenza per giungere ad un ragionamento più ampio e condiviso?
La situazione nel vecchio continente, ad oggi, è chiara: Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna sono i paesi che hanno portato avanti, fino ad oggi, la politica estera in Europa. Le difficoltà sono venute a crearsi nel momento in cui ognuno dei paesi citati ha interpretato in maniera autonoma la politica estera da attuare, soprattutto in relazione al rapporto con la NATO.
Forse per ragioni storiche, forse per interessi non coincidenti ma ognuna di queste quattro potenze ha proiettato la propria azione, in relazione alla solidarietà atlantica, in maniera profondamente incoerente:
- la Francia si è dimostrata da sempre lontana da essa, in relazione alla sua autonomia nel settore nucleare militare;
- La Germania, avendo geograficamente un lungo confine con l’Est avverte il peso della Russia e deve, anche per eredità di guerra, dimostrare il proprio distacco dagli obblighi della difesa militare;
- La Gran Bretagna, storicamente (e dopo la il referendum sulla Brexit nel 2016 anche di fatto) si sente più molto più “atlantica” e molto meno “europea”;
- L’Italia ha rappresentato l’anello di congiunzione, dalla nascita della Repubblica, tra Europa e fedeltà atlantica: un must della collocazione internazionale promossa dall’azione di Alcide De Gasperi in poi.
Questa confusione non ha permesso all’Unione Europea di essere elemento cardine dell’ordine mondiale secondo un’eterogenesi dei fini che deve essere arrestata. Se il “limes”, sia fisicamente che metaforicamente, diventa inviolabile si mette in discussione la cooperazione e l’identità europea.
Quindi, in un mondo multipolare, l’Occidente (la NATO, il Patto Atlantico) gioca ancora un ruolo strategico importante oppure Europa e USA viaggiano su binari non paralleli?
Il credo è che Europa unita, dal punto di vista della politica estera e militarmente, ed atlantismo siano destinate a convivere ancora per molto tempo e, nonostante i dubbi mostrati da Trump, dai sovranisti europei e anche, lo scorso anno, da Macron, non può essere messo in discussione il fatto che la Nato, soprattutto in Medio Oriente ove continua la politica Russo-Turca- Iraniana, resta fondamentale anche per la difesa europea. Questo perché sono i valori propri dell’Occidente, stato di diritto e libertà in primis, a giocare il ruolo di trade-union.
L’Europa, dunque, si trova al centro di uno scenario in cui un cambio di passo appare auspicabile per porsi al centro delle sfide globali, non solamente della cartina geografica.
L’evoluzione rapida delle partite da giocare in questo decennio può rappresentare una vera e propria opportunità per il processo democratico di difesa e di politica estera che l’Unione Europea deve essere in grado di cogliere.
Il riaffermarsi, quindi, di radici comunitarie che, attraverso un rafforzamento della coesione sociale e culturale e per mezzo di una reale unità politica, possano condurre alla realizzazione di una politica estera e di difesa comune.
Il compito non è facile ma la cupidigia di una politica verosimile e responsabile deve tornare di moda anche culturalmente per offrire occupazione, protezione sociale, istruzione e sicurezza e accantonare la singola ricerca del consenso interno, proiettando lo sguardo verso il mondo senza curarsi troppo del proprio ombelico.
Anche il ruolo italiano, infine, deve essere chiaro e non subalterno. L’avvicinamento alle politiche avversarie dell’Atlantismo, Russia e Cina, indebolirebbero il ruolo strategico italiano e ne deriverebbe una politica estera senza anima.
L’Italia non può giocare un ruolo silente, passivo, inefficace e ininfluente e dovrebbe riaffermare il suo ruolo “ponte” tra Europeismo ed Atlantismo. È il compito storico cui il “belpaese” è destinato.