Sono davvero la Russia e l’Islam i (soli) nemici dell’Occidente? O piuttosto, i pericoli dell’Occidente vengono dal suo interno?
L’Occidente contiene, in sé, la tensione verso il bene comune, della persona e della società, e non tollera visioni riduttive della libertà.
La sacralità della vita è ridotta a un simulacro dalla prevalenza della cultura della morte (nel sue varie e tragiche declinazioni).
L’Uomo occidentale non riconosce più alcuna Autorità, e neanche la Chiesa sembra più in grado di guidarlo.
Le misere vicende politiche nazionali impediscono (ai più) una visione larga della crisi profonda, e, per certi, versi, irreversibile, in cui è sprofondata la civiltà occidentale. L’architettura politica e culturale su cui si sono rette le società europee e quella americana, pur con i rivolgimenti degli ultimi secoli, è stata edificata su architravi solide e stabili, che, tuttavia, cominciano a mostrare profonde crepe e inquietanti segni di cedimento. Il Presidente Trump ha recentemente avvertito l’esigenza di difendere l’Occidente dal pericolo della Russia. Così come si sente ripetere, come un man- tra, che la civiltà occidentale è minacciata dal fondamentalismo islamico. Ma sono davvero la Russia e l’islam i (soli) nemici dell’Occidente? 0, piuttosto, i pericoli per l’Occidente vengono (soprattutto e innanzitutto) dal suo interno?
Prima di rispondere a queste domande, si deve comprendere l’essenza dei valori dell’Occidente. Con l’eccezione delle aberrazioni totalitarie, la civiltà occidentale, nei suoi naturali e più recenti approdi, si è costruita sui valori della libertà e del primato della persona (e della sua dignità) sullo Stato; della sacralità della vita e della universalità dei diritti; sul principio di responsabilità e su quello della rappresentanza democratica (temperato dal canone della sussidiarietà).
La sintesi mirabile, che si è consolidata nel pensiero dell’Occidente, tra filosofia greca, diritto romano e fede cristiana ha condotto alla costruzione di un sistema culturale e di pensiero che è riuscito a coniugare la più autentica espressione della natura dell’uomo con lo sviluppo di una società ordinata e libera.
Le vette raggiunte dalla speculazione dei filosofi greci hanno, in particolare, aperto uno squarcio su una dimensione ideale dell’esistenza dell’uomo e delle sue relazioni; le regole del diritto romano, incentrate sulla responsabilità personale e civica del pater famìlìas, hanno consolidato l’idea che ogni convivenza umana ordinata deve fondarsi sul principio di giustizia delVunicuiqm suum (già presente nelle opere di Platone e di Aristotele e poi consacrato da Ulpiano come uno dei cardini del diritto); la rivelazione e la tradizione cristiana hanno illuminato di una luce soprannaturale l’armonia delle civiltà classiche, con cui si sono coniugate, stabilendo un legame inscindibile e virtuoso tra la centralità della persona e i suoi doveri verso il prossimo e verso la Res Publica.
Il connubio di fede e ragione (già indicato come indissolubile da sant’Agostino, da san Tommaso, da Pascal e, infine, ripreso da Benedetto XVI nella celebre Lectio ìnagistralis tenuta a Ratisbona) ha costituito, in particolare, il fondamento dell’elaborazione e dell’attuazione di un sistema che si fonda sì sulla logica e sul diritto, ma anche su una prospettiva salvifica dell’esistenza umana.
Si è così sviluppata, seppur con un percorso non sempre lineare (il sonno della ragione ha anche prodotto i mostri della degenerazione giacobina della Rivoluzione francese, del collettivismo socialista e ateo e del totalitarismo pagano dello Stato nazionalsocialista), un’idea di società e di persona che trascende ogni approccio meramente organizzativo e orizzontale e che si nutre, al contrario, della naturale aspirazione dell’uomo a valori universali e immutabili.
L’Occidente contiene, in sé, la tensione verso il bene comune, della persona e, insieme, della società, e non tollera visioni riduttive della libertà dell’uomo o interpretazioni materialistiche della convivenza civile.
La cultura occidentale presuppone e genera una insopprimibile ricerca, che Oswald Spengler (ne “Il tramonto dell’Occidente”, troppo spesso oggetto di esegesi deviate e ideologiche) definiva (prima) apollinea e (poi) faustiana, della dimensione ideale, ma non per questo utopistica o irrazionale, del benessere (meglio: della felicità) dell’uomo.
Per questa sua visibile aspirazione incessante verso il bene della persona e della società l’Occidente ha assunto il ruolo di guida nella diffusione nel mondo del valore della libertà e, senza idealizzarne la storia o sminuirne gli errori (che pure non sono mancati), ha garantito l’assimilazione globale e, spesso, la stessa protezione dei diritti naturali dell’uomo.
Sennonché, la civiltà occidentale sembra, ormai da tempo, aver abdicato a questa sua naturale missione, avendo ceduto ai germi interni della dissoluzione e al morbo intestino della disgregazione della sua struttura ontologica. E’ vero che, come osserva Umberto Galimberti, l’Occidente contiene già nella sua radice lessicale l’idea del tramonto, ma sembra che recentemente il crepuscolo della luce che esso diffondeva si sia fatto sempre più scuro (tanto che il sociologo Harold Bloom ha definito l’America come “terra dell’imbrunire”), secondo la regola (della fisica aristotelica) consacrata nel motto motus infine velocior.
La società occidentale contemporanea ha, infatti, da tempo rinunciato alla ricerca del significato dell’esistenza, ha abdicato a ogni prospettiva salvifica della vita, ha smarrito il senso del sacro (come mirabilmente argomentato da Ida Magli in “Dopo l’occidente”), ha bandito Dio dalla vita pubblica e si è chiusa in un’organizzazione materialistica e, in fondo, disperata delle relazioni umane.
Il sistema su cui si reggono, ormai, le convivenze occidentali si fonda sul solo predominio della tecnica e della finanza sulla dignità e sulla libertà dell’uomo.
L’uomo occidentale, soprattutto quello metropolitano, è schiacciato da una regolazione ossessiva di ogni aspetto della sua esistenza, oppresso da una presenza invadente e pervasiva dello Stato.
E’ stordito dagli smartphone e inebetito dai social network.
Non crede più a niente e a nessuno. Anzi, peggio, è pronto a credere al primo politicante che gli promette, con miserabili tecniche illusionistiche, un frammento di felicità.
A ben vedere, tutti i pilastri su cui è stata edificata l’architettura della civiltà occidentale stanno cedendo o si sono già sgretolati (in un processo di crisi già intuito, nella prima metà del secondo scarso, da Paul Hazard, “La crisi della coscienza europea”, e Robert Musil, “L’uomo senza qualità”).
La dignità della persona è vilipesa e mortificata dalle preminenti e oppressive regole della scienza e dell’economia (applicate senza alcuna considerazione delle istanze insopprimibili e naturali dell’individuo), in tutti gli ambiti dell’esistenza umana.
La sacralità della vita è ridotta a un simulacro dalla prevalenza della cultura della morte (nelle sue varie e tragiche declinazioni).
La libertà (anche di pensiero e finanche di parola) dell’uomo (nell’espressione più pura del pieno sviluppo della personalità e nei rapporti con lo Stato) è conculcata dall’attuazione indefessa dei dogmi orwelliani di una nuova religione civile, i cui riti si celebrano nel main- stream del pensiero unico (con le aberrazioni già stigmatizzate da Robert Hughes, “La cultura del piagnisteo”), e da una disciplina minuziosa e invasiva delle attività economiche, oltre che da una innaturale oppressione fiscale.
Il principio di responsabilità, su cui sono stati edificati gli assetti più virtuosi delle società contemporanee, è oscurato da una malintesa e incessante rivendicazione di (soli) diritti, così assordante da provocare l’oblio dell’etica dei doveri.
La ricerca del significato della vita e la prospettiva della sua redenzione sono ormai tristemente sostituite da un’affannosa brama di divertimenti, beni materiali, sballo, svago, sesso, droghe, che pare esaurire, in sé, il senso dell’esistenza, tanto che l’individuo, avendo smarrito la sua dignità, è ormai svilito al rango di un consumatore seriale di piaceri.
L’uomo occidentale è confuso da una girandola vorticosa di informazioni e di notizie, così da disconoscere persino l’istanza più intima della ricerca della verità. Ha sostituito l’affermazione di principi assoluti con un relativismo fiacco e sterile, che rinuncia in radice all’idea stessa della verità.
E’ così indebolito da non essere più in grado di sacrificarsi per niente e per nessuno, da ignorare lo stesso concetto di sacrificio, nelle sue espressioni più nobili.
Non riconosce più alcuna Autorità e neanche la Chiesa sembra più in grado di guidarlo, irretita come appare, nella sua guida temporanea, in una visione (solo o soprattutto) orizzontale, sociale e immanente del mondo.
D’altra parte il rifiuto per l’Autorità, anzi: il disprezzo per essa (recentemente indirizzato verso quella politica), era già stato indicato come una delle cause principali della crisi della società contemporanea e della sua conseguente (o presupposta?) anarchia strisciante da Christofer Lasch (“La cultura del narcisismo”).
L’uomo occidentale non riesce neanche più a immaginare il suo futuro, tanto che non fa più figli, che sono il primo e il più chiaro segno della vitalità di una società. La denatalità impedisce, così, il naturale rinnovamento della vita e delle energie della comunità e ne accelera il crepuscolare e malinconico invecchiamento, in un’agonia (che pare) senza speranza.
L’Occidente, così come lo abbiamo conosciuto, si sta tristemente, ma inesorabilmente, spegnendo, in un processo di dissoluzione interna che ricorda, per molti versi, il declino dell’Impero Romano, quando la degenerazione morale, l’arrivo dei barbari, la crisi demografica, la corruzione hanno prodotto il disfacimento di un’organizzazione che pareva incrollabile e spalancato le porte al Medioevo.
Sembra un percorso irreversibile di decomposizione, lento ma inesorabile, di un organismo (sempre meno) vitale (lo storico americano Andrew Michta la definisce decostruzione dell’Occidente), celato ai più dall’ebrezza dei consumi o, per converso, dalle preoccupazioni economiche.
Quando l’uomo e la società in cui vive perdono il senso della loro esistenza, rinnegano la loro identità e la loro tradizione (come accade simbolicamente, e tragicamente, con l’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, così come con la rinuncia della principali Università statunitensi allo stesso insegnamento obbligatorio della Western Civilization) e non hanno più fede in alcun valore che trascenda la dimensione solo materiale del consumo e del piacere, appare difficile immaginare una palingenesi.
Quando il denaro vale più dell’uomo, sembra impossibile scongiurare il collasso del sistema.
Ed è arduo non pensare a un suicidio (o a una strana forma di eutanasia).
I nemici, per rispondere ai quesiti in- ziali, sono, infatti, figli degeneri e spuri dello stesso Occidente.
Si dirà che è una visione (troppo) pessimistica del presente (e del futuro) e (troppo) ottimistica del passato. Forse è vero.
Ci sono ancora luci (oggi) che possono giustificare una speranza, così come ci sono ombre tragiche nella storia dell’Occidente, ma il processo è quello indicato: lo smarrimento, la confusione, la paura, la debolezza hanno preso il posto di quella energica tensione ideale verso il bene dell’uomo che ha animato, per secoli, la vita della civiltà europea.
E’, quindi, tutto perduto?
La civiltà occidentale è, dunque, destinata a essere sostituita da oscure, ma più forti e più vitali, culture, che, tuttavia, ignorano i principi di libertà, democrazia, dignità dell’uomo, sacralità della vita, rispetto per la donna?
Difficile a dirsi. Sembra che manchi la forza per una rinascita. Sembra che l’Occidente non abbia più l’energia, da solo, di rigenerarsi, annullato com’è da un nichilismo senza speranza.
Forse è necessario uno scatto traumatico della Storia, perchè l’Occidente riscopra i suoi valori, i suoi ideali, il senso della sua missione. Forse, come nella vita delle persone, è necessaria una tragedia, per un nuovo inizio.
La rigenerazione dell’Occidente non può, tuttavia, che passare da un nuovo umanesimo. Un umanesimo cristiano.
Non indistinto e politicamente corretto.
Ma cristiano, che si fondi, cioè, sul riconoscimento della persona come essere naturalmente libero e destinato alla felicità (e alla salvezza) per mezzo della verità e dell’amore.
“Sentinella, a che punto è la notte?”
(Isaia, 21,11).
di CARLO DEODATO
pubblicato su “IL FOGLIO” inserto, 13 settembre 2017