Le elezioni presidenziali del 2002 furono considerate una sorta di “11 settembre” politico per la Francia: tuttavia in quel caso il Presidente gollista Chirac riuscì ad arginare il fenomeno elettorale e mediatico del Front National grazie ad una vittoria schiacciante al secondo turno, facendo tirare un sospiro di sollievo all’Europa intera. Lo spettro dell’ondata populista ed estremista sembrò allontanarsi. In realtà, quel terremoto politico di 15 anni fa si è manifestato nella sua reale potenza distruttiva soltanto ai giorni nostri.
Oggi, come allora, si cerca di correre ai ripari mobilitando un vasto movimento repubblicano, guidato dall’acerbo e politicamente inesperto Macron, capace di unire tutte le forze partitiche francesi per salvare soprattutto il destino del Vecchio Continente. Ma è qui che si annida il grande fraintendimento. Fatta eccezione per il Front National, queste elezioni hanno dimostrato la totale mancanza di fiducia degli elettori francesi nei confronti dei vecchi partiti di appartenenza.
Il partito neo-gollista (“Les Républicains”) ha compiuto il proprio seppuku, anteponendo all’unità del partito stesso le mire personali dei capi-corrente. Le disavventure giudiziarie di Fillon hanno depotenziato notevolmente le possibilità di quest’ultimo. Abbandonato dal proprio partito, a pochi mesi di distanza dall’investitura trionfale delle primarie dello scorso novembre, Fillon è riuscito comunque ad ottenere un ragguardevole 20% di preferenze, a dimostrazione della tenacia dimostrata in questa lunghissima campagna elettorale.
Lo stesso copione si è ripetuto in maniera ancor più radicale con il candidato socialista Benoît Hamon, che è riuscito a raccogliere solamente un misero 6%. Hamon ha dovuto pagare la perdita di credibilità del Partito Socialista dopo il quinquennio disastroso all’Eliseo di Hollande, oltre alle feroci lotte interne al partito che ne hanno minato fortemente l’unità.
“Meglio sbagliare stando dalla parte dei lavoratori che aver ragione contro di essi”: le parole di Pietro Nenni sintetizzano abbastanza fedelmente lo spirito con cui l’elettorato socialista disilluso ha virato in modo deciso verso il candidato “post-comunista” Jean-Luc Mélenchon. Quest’ultimo ha sbaragliato la debolissima concorrenza di Hamon, raccogliendo oltre il 19%. Fillon e Hamon sono stati penalizzati enormemente – con sviluppi ed evoluzioni diverse per i due casi – dalla propria appartenenza ad un partito tradizionale. Questa è la prima conclusione che si può trarre dal primo turno delle presidenziali francesi. La politica nelle democrazie contemporanee diviene sempre più focalizzata sulla personalità dei candidati. Il partito – per quel che ne rimane – s’identifica sempre più strettamente con il proprio leader.
“I miei elettori mi hanno dato un mandato per il primo turno, non per il secondo”: Questa è stata la dichiarazione con cui lo stesso Mélenchon ha annunciato la totale di libertà di coscienza per il proprio elettorato in vista del secondo turno. Nei giorni successivi il suo entourage ha trovato una forma di mediazione, consigliando l’astensionismo al ballottaggio pur di non favorire Macron e la Le Pen. Ma lo spirito del tempo sembra andare in una direzione differente, che è quella della democrazia diretta o, per dirla con il compianto Sartori, del “direttismo”.
Persino la Le Pen, pur di intercettare l’elettorato neo-gollista, in questi giorni ha lasciato la leadership del Front National: “Non sono la candidata del Front National, sono la candidata sostenuta dal Front National. Mi sento libera e soprattutto al di sopra della politica dei partiti”. Per una incredibile eterogenesi dei fini la Le Pen potrebbe diventare il vero candidato “gollista” in previsione del ballottaggio? Sembrerebbe alquanto improbabile, ma per il fronte europeista guidato da Macron le cose non saranno così semplici. Soprattutto alla luce delle prossime elezioni legislative. Non a caso, dopo il primo turno delle presidenziali l’attenzione si è spostata alle elezioni parlamentari, che si terranno l’11 e il 18 giugno 2017. La vera incognita rimane, in caso di vittoria al ballottaggio, la capacità e la reale possibilità di formare una coalizione di governo guidata dal neonato movimento di Macron.
Il paese è letteralmente spaccato in due. Il primo turno delle elezioni presidenziali francesi mette il sigillo quasi definitivo – dopo le elezioni americane e l’esito del referendum nel giugno scorso nel Regno Unito – sul vero effetto di divario sociale scaturito dalla globalizzazione e dall’incapacità di formulare una risposta vincente a tale questione da parte delle classi dirigenti europee. Si ripropone la frattura, teorizzata negli anni sessanta da Rokkan, socio-geografica, ancor prima che politica, tra centro e periferia, tra grandi aree urbane e piccoli centri. Naturalmente la teoria delle fratture socio-politiche (cleavages) di Rokkan deve essere contestualizzata, perché la politica – come ci ha insegnato Sartori – non è soltanto un mera proiezione di queste divisioni, bensì è soprattutto esercizio di “traduzione” e di analisi concreta di tali fratture culturali e politiche. Macron dovrebbe tenerlo a mente, perché altrimenti rischierebbe, in ogni modo, di consegnare la vittoria alle presidenziali del 2022 alla Le Pen.
Gian Marco Sperelli