Decima puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.
di Antonio Campati*
L’approssimarsi dell’anniversario della firma dei Trattati di Roma potrà rappresentare per la storia dell’Unione europea odierna o una stanca e ripetitiva celebrazione retorica o l’occasione per prendere atto che l’Europa nata sessant’anni fa non esiste più. La prima opzione è un rischio sempre latente nelle celebrazioni commemorative, che però in questo caso può svanire se si assume del tutto la consapevolezza evocata dalla seconda possibilità.
Che la quasi totalità dello scenario economico e geo-politico del Vecchio Continente sia mutato dal 1957 a oggi sembra essere un dato assodato. Eppure, come ha osservato Angelo Panebianco (Cambiare i trattati per salvare l’Unione europea, Corriere della Sera 23/01/2017), non ancora ci si capacita del fatto che l’Europa costruita all’indomani della Seconda guerra mondiale avesse «una data di scadenza». Perché quel tipo di Europa era figlia della Guerra fredda e neppure il colpo d’ala impresso con il Trattato di Maastricht dopo la fine della politica dei blocchi è riuscito a garantirle un futuro di lungo periodo, giacché poco più di dieci anni dopo (nel 2005 con il voto referendario contro il trattato costituzionale) entrava in una fase di profonda instabilità. Per avviare una nuova stagione, Panebianco suggerisce di aggiornarne i trattati costitutivi in modo da delineare un’Europa diversa da quella odierna, stretta in una tenaglia pressata, da un lato, dai movimenti antieuropei, dall’altro, dall’euroconservatorismo. E aggiunge che nonostante la modifica dei trattati porti con sé la realistica possibilità di una sua implosione, è altamente prevedibile che lasciando tutto così com’è questa si avvii comunque verso una fine disastrosa.
L’idea di modificare la sua conformazione istituzionale è in effetti un’ipotesi che consentirebbe di risolvere una volta per tutte alcune contraddizioni profonde che il dibattito sull’Europa ha covato negli ultimi decenni. Tra queste si colloca uno degli errori di prospettiva più frequenti che consideral’Unione europea alla stregua di una grande democrazia nazionale o per lo meno come un disegno politico che si avvia inevitabilmente a raggiungere questa meta. In realtà, l’origine del progetto di integrazione è il frutto dell’attivismo di un gruppo di élite nazionali che in un primo momento non ha neppure creduto indispensabile basare la propria azione sulla legittimazione popolare diretta. Nei decenni seguenti, non pochi hanno considerato questa impostazione iniziale come un peccato originale da espiare con l’applicazione, nell’ambito europeo, di alcuni dei meccanismi di legittimazione propri delle democrazie nazionali. Ciò non significa, per esempio, che il processo di avvicinamento dei cittadini alle istituzioni sia stato vano, che la possibilità di sostenere iniziative di natura popolare sia stata inutile o che la legittimazione elettorale da parte di una platea sempre più ampia di elettori debba essere ostacolata. Ma che iniziative in tal senso devono essere collocate dentro una cornice istituzionale (e non solo) che sia in grado di accoglierle e, soprattutto, di renderle effettive.
Prendere atto che l’Europa è cambiata e sta cambiando è dunque molto più difficile di quanto si possa immaginare. Quasi novant’anni fa, ne La ribellione delle masse, José Ortega Y Gasset parlando dell’Europa notava come il suo magnifico e lungo passato la faceva allora approdare in uno stadio di vita «dove tutto è cresciuto», ma dove però «le strutture di questo passato sono nane e impediscono l’attuale espansione». In un certo qual modo, oggi, seppur in un contesto diversissimo, le istituzioni europee si trovano costrette a dover superare se stesse ancora una volta. E per farlo dovranno ripensare in profondità la loro natura. Questa volta, il loro obiettivo non sarà certamente l’«espansione» bensì la capacità di governare alcuni cambiamenti cruciali che – in primo luogo nei rapporti con l’America guidata da Trump – si palesano numerosi e spesso piuttosto complessi.
* Assegnista di ricerca in Filosofia politica, Università Cattolica del Sacro Cuore
Puntate precedenti:
0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale
- | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
- | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune
- | Simona Beretta – TTIP, allargare lo sguardo
- | Antonio Campati – Tempo scaduto. Dalla crisi nuove élite per l’Europa
- | Nicola Pedde – Non esiste un’alleanza politico-militare tra Russia e Iran, ma solo una convergenza temporanea e selettiva di interessi
- | Paolo Alli – La Russia di Putin alla luce delle elezioni georgiane
- | Gabriele Natalizia – Una “nuova” Guerra Fredda?
- | Tomi Huhtanen – Populist influence and how to fight it
- | Hasan Abu Nimah – Should the Arab world follow the European unification model?