In questi giorni di attesa e curiosità intorno all’approdo del Tycoon e della sua First Lady alla Casa Bianca, molte sono le domande che nascono sul New Deal della politica estera americana. Se tanto si è già parlato, a causa delle polemiche e dei cavalli di battaglia della campagna elettorale, di Cina e Medio Oriente, restano tuttavia dei chiaroscuri nel programma dell’amministrazione Trump su cui è bene soffermarsi. Molti si stanno chiedendo quale ruolo nella gerarchia delle priorità di politica estera ricoprirà il continente africano per la nuova amministrazione USA. Durante la campagna presidenziale i riferimenti di Trump all’Africa sono stati pressocché inesistenti, fatto salvo un accenno agli attentati di Nairobi e Dar es Salaam di fine anni ‘90 e qualche breve riferimento a Daesh in Libia. Eppure, dopo la sorprendente vittoria del 9 novembre, l’Africa è tornata al centro delle attenzioni mediatiche, con i capi di Stato e governo del continente divisi tra speranze di nuove aperture diplomatiche ed il timore di essere abbandonati al proprio destino.
Come il noto analista sudafricano Greg Mills nota, la diplomazia statunitense in Africa negli ultimi otto anni di amministrazione Obama è stata “notevole per la sua assenza”. In effetti, se si eccettua il proseguimento dei programmi iniziati già con l’amministrazione Clinton e Bush II, quali l’African Growth e l’Opportunity Act e la presenza militare sul continente dell’Africom (Comando Africano degli USA), si è rilevata una crescente indifferenza nei confronti delle sfide di democratizzazione e stabilizzazione di alcuni tra i paesi più instabili.
La lista degli auguri – Un primo segnale per capire come si orienterà l’amministrazione Trump verso il continente africano arriva dalle chiamate di congratulazioni ufficiali che il Tycoon ha ricevuto dopo la vittoria alle urne. Alcune sono partite dalla cornetta telefonica di alcuni strong men al potere nel continente, fatto che ha destato non poche preoccupazioni tra gli altri leader africani. Tra le reazioni più calorose, quella di Joseph Kabila, capo di Governo in Congo senza interruzioni dal 2002, i cui funzionari sono oggetto di sanzioni internazionali per violazione dei diritti fondamentali. Il leader congolese ha scritto a Trump complimentandosi per la sua “brillante elezione”. Altri capi di governo accusati dall’ONU e altre ONG internazionali di violare i diritti umani della propria popolazione hanno accolto con entusiasmo l’elezione di The Donald: il presidente del Burundi Pierre Nkurunziza, il contestatissimo presidente dello Zimbawe Robert Mugabe, al potere da ben 36 anni, Idriss Déby, presidente dal polso duro dello stato Sahariano del Chad, Salva Kiir, Capo di Stato del sanguinante e sofferente Sud Sudan, le cui relazioni con l’amministrazione Obama sono arrivate a toccare il fondo.
Questi passi in avanti verso Washington da alcuni degli strong rulers sembrano ad oggi unilaterali, data l’estrema incertezza che circonda le linee di politica estera dell’amministrazione Trump per ciò che riguarda l’Africa. Qualcuno, come Peter Vale, direttore dell’Università di Johannesburg, si spinge ad affermare che “probabilmente la politica estera di Trump verso l’Africa non esiste”.
Quel che è certo è che due sono i nomi che hanno predominato nelle discussioni di politica estera di Trump durante la campagna elettorale: la Cina e l’ISIS, ed entrambe hanno a che fare con il continente africano.
Il problema cinese – Per quel che riguarda la Cina, sono in gioco gli interessi commerciali degli USA sul continente. Se Trump è davvero intenzionato a mostrare i muscoli contro Pechino, allora il vuoto lasciato dalla presenza economica statunitense in Africa e riempito dal business cinese non può non destare preoccupazioni all’amministrazione insediatasi a Washington. Il numero di compagnie cinesi che investono sul continente cresce vertiginosamente ogni anno. La dinamica di base è semplice: in cambio di nuove infrastrutture e prestiti di stato mastodontici le compagnie cinesi si sono guadagnate un ruolo di monopolio nei processi estrattivi delle risorse minerarie africane sbaragliando la concorrenza preesistente, e non diversamente funziona il meccanismo retrostante l’acquisto di enormi proprietà terriere per mettere in piedi progetti su larga scala nel campo agricolo. Si stima che solo nel 2015 il valore del commercio tra Cina e continente Africano risultò essere di 300 miliardi di dollari.
Una lista di quattro pagine è stata consegnata dal Transition Team al Pentagono ed al Dipartimento di Stato per chiedere spiegazioni e avanzare dubbi sulla situazione degli interessi USA in Africa. Dal documento traspaiono la chiara intenzione di ridurre i fondi destinati agli aiuti umanitari e ai progetti di sviluppo e al tempo stesso la preoccupazione di salvaguardare la competitività del business statunitense dalla feroce concorrenza cinese.
La polveriera libica – “Why aren’t we bombing the hell out of ISIS?” (D. Trump, maggio 2016) – La seconda questione è di rilevanza per la sicurezza nazionale ed è un pallino fisso di Steve Bannon, capo stratega della nuova amministrazione: il califfato nero. Pur in difficoltà e in ritirata, l’ISIS non ha abbandonato la Libia, e la presenza dei tagliagole nello stato dell’Africa del Nord allontana la speranza di qualsiasi soluzione della crisi in corso. Il governo di Serraj perde credibilità di ora in ora e, anche se è appoggiato dall’ONU, non gode di alcun appoggio al di fuori di Tripoli. A capo del Governo di Tobruk cresce invece il consenso e la forza contrattuale del Generale Khalifa Haftar, uomo forte appoggiato e finanziato dalla Russia di Vladimir Putin e sicuro di un esercito che conta più di 20.000 uomini. Non è un caso, come riporta Reuters, che il Generale sia stato tra i primi a congratularsi con Trump per la vittoria: l’uomo forte della Cirenaica sarà con ogni probabilità il diretto interlocutore della nuova amministrazione USA nella lotta all’Isis in Libia, con buona pace dell’ONU e dell’Unione Europea.
Francesco Bechis