Skip to main content
29 Dicembre 2016

LA STORIA DI AMRI AIUTA A MIGLIORARE LE DIFESE DAL TERRORISMO

di Alessandro Burato*

Sono giorni delicati quelli che tutta l’Italia sta vivendo dopo l’eliminazione a Sesto San Giovanni, il 23 dicembre, di Anis Amri, tunisino che – scappato da Berlino dopo aver colpito la folla delle bancarelle natalizie nella capitale tedesca – ha terminato la sua corsa nella periferia milanese. 

Amri può essere la chiave di volta per iniziare a parlare diversamente di terrorismo in Italia. Sebbene infatti la penisola non sia stata il luogo dell’attacco, il nostro Paese ha comunque svelato il suo ruolo nella guerra ibrida del nuovo terrorismo. E lo ha fatto proponendoci un individuo che raccoglie in sé tutte le sfide che la diffusione, la pervasività e la delocalizzazione del nuovo conflitto mondiale pongono: dalle questioni legate al profilo del terrorista tunisino, all’utilizzo delle nuove tecnologie, al tema della radicalizzazione e del ruolo della propaganda.

La storia di Amri è ormai stata scritta ovunque, ma sono quattro i momenti che evidenziano tutte le vulnerabilità alle quali il sistema è esposto: di origini tunisine è sbarcato come migrante a Lampedusa nel febbraio 2011 e accolto in un centro a Catania; il 23 ottobre dello stesso anno viene arrestato per aver aggredito il custode della struttura e per aver incendiato il centro a Belpasso; oggetto di un decreto di espulsione mai eseguito (perché la Tunisia non lo riconosce come suo cittadino), lo si ritrova in Germania dove compie l’attacco a Berlino prima di rientrare in Italia. La vicenda di Amri riporta al centro della discussione sul terrorismo lo scambio di informazioni tra i paesi europei, il ruolo del sistema carcerario nei processi di radicalizzazione, le migrazioni e il sistema di espulsioni degli illegali. Temi da affrontare senza alcuna connotazione ideologica ma con l’onestà intellettuale sufficiente per ammettere la necessità di approfondire queste questioni per comprendere un fenomeno alquanto complesso.

Tutto ciò premesso, in relazione ad Amri si delinea un profilo abbastanza ricorrente: il lupo sciolto ma comunque connesso. Sono infatti le connessioni che stanno alla base del processo di radicalizzazione, tutte immerse in un contesto propagandistico del Daesh che ne favorisce lo sviluppo e l’orientamento verso una pianificazione strategica da parte del Califfato.

Le connessioni sono state il fattore centrale durante il periodo di detenzione di Amri. Il Dap segnala infatti rapporti con altri tunisini ritenuti fondamentalisti e in una nota della Questura di Catania si evidenzia come all’interno dell’istituto di detenzione Amri avesse sviluppato “una fede integralista islamica e un carattere violento”. Le relazioni strette durante il periodo in carcere hanno sicuramente avuto un ruolo importante nel processo che ha portato Amri a Berlino, tanto che, dopo la strage, il tunisino giunto a Torino sembrerebbe aver tentato di prendere contatto con un ex-galeotto compagno di cella. 

Le relazioni sono però anche quelle mediate tramite la tecnologia. Elemento chiave della nuova guerra ibrida, i sistemi di comunicazione – specie quelli garantiti da Internet – sono cruciali. Telegram, che opportunamente utilizzato assicura maggiori garanzie di riservatezza rispetto ad altri strumenti, sembra aver definitivamente rimpiazzato ogni velleità del Daesh di avere un proprio servizio di messaggistica istantanea. Lo strumento è diventato il luogo di diffusione di messaggi e materiali per il reclutamento e la radicalizzazione: è attraverso Telegram, per esempio, che Amri tiene i contatti con il nipote in Tunisia al quale invia denaro, dopo averlo radicalizzato convincendolo a giurare pubblicamente su Facebook fedeltà al califfo, per assicurargli un’identità falsa e il viaggio in Germania per unirsi al gruppo di Abou al Wala.

Si aggiungono quindi le connessioni con i gruppi jihadisti più strutturati o con i predicatori del jihad. A loro, perché ne diventino cassa di risonanza, viene affidato il messaggio della propaganda. E quelli rivolti ai combattenti, fin dal maggio scorso, sono chiari: utilizzate ogni mezzo a disposizione, dai coltelli ai camion, dall’esplosivo finanche al veleno. E sull’uso dei camion la propaganda ha ormai un esaustivo repertorio. Ancora prima dell’attacco di Nizza del 14 luglio scorso, già nel 2010 sul numero 2 di Inspire (rivista qaedista) venivano suggeriti i camion come armi per “fare la più grande carneficina”. Dopo la strage sulla Promenade des Anglais è stato pubblicato dalla “Inspire Guide” un numero dedicato alle modalità di realizzazione dell’attacco (21 luglio 2016). Poi ulteriori indicazioni su quali mezzi e obiettivi scegliere sono pubblicati sul numero 2 di Rumiyah (edizione in inglese del 12 novembre 2016), poi riprese in traduzione bosniaca nel numero 4 della rivista uscita solo tredici giorni prima dell’attacco a Berlino. Ma Berlino è stato solo il gesto di emulazione di un radicalizzato, o frutto di una effettiva azione della propaganda? E più in generale quale è il ruolo della comunicazione del Daesh nell’identificare modus operandi e obiettivi? Sicuramente alcuni aspetti dell’attacco nella capitale tedesca pongono interrogativi sulla scelta della tipologia di mezzo e sulla fuga immediata dalla scena da parte del terrorista senza continuare il massacro, ma non pongono alcun dubbio sul ruolo più ampio della propaganda che prepara il terreno suggerendo modalità e strategie generali.

In quest’ottica, allora, Amri ha sbattuto in faccia a tutti quanto il suo arrivo in Piazza Primo Maggio a Sesto San Giovanni il 19 dicembre, dopo avere attraversato mezza Europa in treno, sia stato favorito da una mancanza di coordinamento e condivisione di informazioni che sempre più devono essere scambiate efficacemente tra i vari stati membri dell’Unione Europea e con paesi terzi, sia paesi di origine dei flussi migratori sia paesi a elevato rischio di terrorismo. Per alcuni versi il clima è cambiato anche in Italia (ne è la prova l’accettazione da parte della società civile delle nuove misure poste a difese di spazi di aggregazione) e questi temi possono essere affrontati in maniera serena rispondendo a un bisogno di sicurezza diffuso tra i cittadini.

* Ricercatore C.E.T.Ra. e Itstime (Università Cattolica del Sacro Cuore)


ISCRIVITI alla NEWSLETTER

Newsletter

"*" indica i campi obbligatori

Nome*