Se la figura storica più rilevante della storia turca nel ‘900 è senza dubbio quella di Atatürk, la figura politica più importante- e anche più controversa- del nuovo secolo è certamente quella di Erdoğan. Da circa 14 anni è il leader incontrastato della politica nazionale turca. Il sogno erdoganiano di trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale neo-ottomana sta procedendo ad un ritmo costante, ma tale processo ha subito un’improvvisa accelerazione nell’ultimo biennio.
Il 28 Agosto 2014 Erdoğan viene eletto con il 52% dei consensi come dodicesimo Presidente della Turchia, nelle prime elezioni presidenziali della storia della nazione, visto che fino a quel momento l’elezione del Presidente spettava al parlamento. Si tratta di un tassello fondamentale nello stravolgimento politico istituzionale del paese, e soprattutto dell’affermazione personalistica della politica erdoganiana. Da repubblica laica e parlamentare- così come era stata plasmata dal padre della Turchia moderna Mustafa Kemal Atatürk- a repubblica presidenziale dai forti connotati religiosi, questo è in fondo il nuovo disegno istituzionale della Turchia di Erdoğan. Tuttavia con le elezioni politiche del 2015 si presenta un ostacolo nei progetti del presidente turco. Nelle consultazioni di quell’anno, con la guida di Selahattin Demirtaş il Partito democratico del Popolo (Hdp)- formazione politica filocurda- conquista il 12,7 % dei voti, supera la soglia del dieci % ed entra nel parlamento per la prima volta nella storia del paese, diventando la principale forza di opposizione al Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) di Erdoğan. Il Partito democratico del Popolo rappresenta il braccio politico della minoranza curda, presente in particolar modo nel sud-est della Turchia, se si considera che il tanto vituperato Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan, organizzazione paramilitare e braccio armato dei Curdi) è costretto a portare avanti le proprie attività in clandestinità, in quanto osteggiato dal regime di Erdoğan perché ritenuto un movimento terroristico. Il partito di Demirtaş dal 2015 ha cercato di raccogliere a livello nazionale l’eredità culturale del Partito Repubblicano Popolare, formazione politica di tradizione kemalista, che fino a quel momento era stato l’unico partito d’opposizione al regime, peraltro con scarsi risultati.
Ma nel pieno delle epurazioni erdoganiane, dopo il fallito golpe del Luglio del 2016, l’élite del partito filocurdo viene colpita da una serie di arresti nella notte del 4 novembre, con l’accusa di essere complici del Pkk. Tra gli arrestati ci sono i leader dell’Hdp, il già citato Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ. La strana coincidenza in questi ultimi avvenimenti è che il governo turco circa due settimane prima aveva abolito l’immunità parlamentare, spianandosi di fatto la strada per una repressione immediata contro l’opposizione curda. In questo contesto proseguono le “purghe” erdoganiane, che il regime vuol far passare come una sorta di riforma o snellimento della pubblica amministrazione, dopo il colpo di stato fallito clamorosamente da parte delle alte sfere dell’esercito.
A poche ore dalla vittoria inaspettata di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane, il primo ministro turco Binali Yildirim congratulandosi con il nuovo presidente ha ribadito la richiesta di estradizione del magnate e imam Fethullah Gülen, ritenuto la mente del golpe in Turchia, esprimendo inoltre l’auspicio che gli Stati Uniti mostreranno la dovuta sensibilità rispetto al problema del terrorismo in Turchia. Erdoğan sembra davvero ostinato nel perseguire il suo progetto ambiziosissimo di diventare il nuovo “Mustafa Kemal” rovesciato. A qualunque costo e con qualsiasi mezzo.
Gian Marco Sperelli