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Michael Axworthy | The Guardian | 28 Settembre 2016
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Over the years, Iran has sometimes played a disproportionately large part in US politics. Jimmy Carter blamed the 1979-81 embassy hostage crisis for his failure to secure a second term, and Reagan’s second term was damaged significantly by the Iran-Contra revelations.
The deal secured by the Obama administration with Iran over the nuclear question in July 2015 has proved violently divisive between Democrats and Republicans. So it was no surprise that Iran surfaced again in the debate between the presidential candidates on 26 September.
President Rouhani of Iran can scarcely be enthusiastic about the prospects for the US presidential election. Trump has said directly that the 2015 nuclear deal was “disastrous” and he would repudiate it, doubling and tripling sanctions (quite how, he doesn’t specify) to force the Iranians to renegotiate. Clinton has supported the nuclear deal and is more likely to follow in Obama’s footsteps, but she has consistently been more hawkish on Iran than Obama. She was enthusiastic in the drive to harden sanctions on Iran in the latter part of Obama’s first term, and Iranians have not forgotten her statement during the presidential nomination contest in 2008 that the US could “totally obliterate” Iran if it were to attack Israel with a nuclear weapon.
Rouhani himself is engaged in an election campaign (the election will take place in May 2017) and, though still popular, is under increasing pressure because economic benefits from the nuclear deal have yet to reach ordinary Iranians. Iran’s supreme leader, Ali Khamenei, has suggested that the US has failed to honour its commitment to lift sanctions. It is an unwritten rule of Iranian politics that Iranian presidents always get a second term, but Rouhani cannot be complacent. He has to appease hardliners, which is why he avoided meeting Obama at the UN general assembly earlier in September. Since the nuclear deal, Iran has drawn closer to Russia over Syria and the US has seemed keener to mollify its ally Saudi Arabia than to explore new opportunities for a better relationship with the Iranians. Iran and the US have retreated to their familiar comfort zones of mutual hostility.
If Trump were elected and really were to follow an America-first policy, retreating from global commitments, conciliating Putin and allowing Russia a larger role (as he has hinted, bizarrely) then relations between states would shift in the Middle East.
Saudi Arabia would be isolated (the folly of the UK’s support for Saudi Arabia in its sectarian cold war with Iran would be even more exposed) and the Iranian regime might rejoice. Trump would follow through on his rhetoric and take a hard line on Iran. Trump is plainly populist and unpredictable – an American version of Iran’s former president Mahmoud Ahmadinejad. But even to him, a US policy initiative to tear up the nuclear deal must look like only adding to the problems of a murderously chaotic region.
Perhaps if, as the polls still indicate, Clinton wins the US presidential contest, greater political freedom of action will permit her to be more imaginative, bold and judicious in the Iran context. Let’s hope so.
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Traduzione
Nel corso degli anni, l’Iran ha talvolta avuto un ruolo “sproporzionalmente” grande nella politica americana. Secondo Jimmy Carter è stata la crisi degli ostaggi all’ambasciata del 1979-1981 a non garantirgli un secondo mandato, e il secondo mandato di Reagan è stato danneggiato in modo significativo dalle rivelazioni Iran-Contra.
L’accordo fissato dall’amministrazione Obama con l’Iran sulla questione nucleare nel luglio 2015 ha svelato le violente divisioni che occorrono tra democratici e repubblicani. Per questo non è una sorpresa che l’Iran sia emerso ancora una volta nel dibattito tra i candidati alla presidenza il 26 settembre.
Il Presidente Rouhani non può essere troppo entusiasta circa le prospettive per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Trump ha detto espressamente che l’accordo nucleare del 2015 è stato “disastroso” e che tenterà di respingerlo, raddoppiando e triplicando le sanzioni (senza specificare come) per forzare gli iraniani a rinegoziare. Clinton ha invece sostenuto l’accordo nucleare, essendo più propensa a seguire le orme di Obama.
Rouhani si è impegnato in una campagna elettorale (le elezioni avranno luogo nel maggio 2017) e, anche se ancora popolare, è sempre più sotto pressione a causa del fatto che i benefici economici derivati dal patto nucleare non hanno ancora raggiunto gli iraniani “ordinari”. Il leader supremo dell’Iran, Ali Khamenei, ha suggerito che gli Stati Uniti non sono riusciti a onorare il loro impegno di abolire le sanzioni. Rouhani deve placare sostenitori della linea dura, motivo per cui ha evitato di incontrare Obama in occasione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite all’inizio di settembre. Dall’accordo nucleare l’Iran si è avvicinato alla Russia sulla questione siriana, e agli Stati Uniti è sembrato più utile tornare ad assecondare l’Arabia Saudita piuttosto che esplorare nuove opportunità per un migliore rapporto con gli iraniani. Sia l’Iran che gli Stati Uniti si sono ritirati nei loro confortevoli ruoli di mutua ostilità.
Se Trump dovesse realmente essere eletto attuando quel tipo di politica di cui parla, ritirandosi dagli impegni globali e consentendo alla Russia un ruolo più importante (come ha lasciato intendere, stranamente), le relazioni tra gli stati nel Medio Oriente subirebbero un cambiamento. L’Arabia Saudita sarebbe isolata (a parte il folle sostegno del Regno Unito nella sua settaria guerra fredda con l’Iran) e il regime iraniano potrebbe gioire.
In linea di massima, nel valutare la probabile direzione della politica sotto uno dei due candidati, ci si deve aspettare che Trump segua la linea dura contro l’Iran. Trump è chiaramente populista e imprevedibile – una versione americana dell’ex presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Ma anche per lui, un’iniziativa politica degli Stati Uniti di questo tipo deve apparire come l’aggiunta di problemi ulteriori ad una regione mortalmente caotica.
A meno che la vittoria non vada alla Clinton e ad una politica iraniana sì più audace ma anche più giudiziosa.
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Sintesi e traduzione di Giada Martemucci
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Donald Trump is an American Ahmadinejad – The Guardian
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