«Quando corri per la Presidenza (e ancor di più quando sei Presidente), le parole contano. Voglio rassicurare i nostri alleati che rispetteremo gli accordi di mutua assistenza»: probabilmente sta tutta qua la differenza tra Donald Trump e Hillary Clinton, in questa frase pronunciata dalla candidata democratica dopo che, verso la fine del dibattito (il primo di tre che ci accompagneranno verso il voto dell’8 Novembre), il candidato repubblicano aveva disegnato scenari di politica internazionale quantomeno originali (per citare i due più incredibili – l’Arabia Saudita ci paghi per la sicurezza che gli garantiamo e la Cina pensi a difendere la Corea del Sud perchè noi non possiamo).
La differenza sta tutta qua perchè, come forse mai, le elezioni americane non si giocano tanto sui contenuti, quanto sulle persone; il che, di per sé, non sarebbe neanche negativo, se non fosse una corsa al ribasso, nella quale (a seconda delle preferenze) almeno uno dei due candidati è sicuramente eccelso. Di conseguenza, davanti alla non-dimestichezza diplomatica, politica e “governativa” di Donald Trump, Hillary Clinton appare una statista di rango elevato, quando non fa altro che tenere botta con classe agli attacchi dell’avversario sviando il discorso mediante attacchi meglio piazzati.
Una manna per lo spettacolo e lo share, senza dubbio: ma la politica, quella della principale potenza mondiale, dov’è finita? Eppure, lo schema della serata era ben disegnato e proporzionato per affrontare con serietà una vasta quantità di temi: tre spezzoni da mezz’ora, economia (“Achieving prosperity”), società (“America’s direction”) e politica internazionale (“Securing America”).
Il primo è stato forse il più “politico”, dato che si è potuta intravedere una differenza di visione: la Clinton sceglie di aumentare le tasse (soprattutto per i benestanti) per ricostruire la classe media e investire in infrastrutture, energie rinnovabili e tecnologia (creando, a suo dire, 10 milioni di posti di lavoro), mentre Trump punta sulle imprese, insistendo sulla necessità di impedire che vengano spostate all’estero e di riportare sul suolo americano quelle già uscite nonché abbassando il costo del lavoro e la regolamentazione, e sui trattati, da rinegoziare (il NAFTA è, secondo The Donald, il peggior accordo mai fatto da qualsiasi stato nella storia mondiale degli accordi commerciali).
Il secondo, senza dubbio, è stato il più tranquillo: il conduttore ha subito portato il dibattito sulla questione razziale, e chiaramente entrambi – e soprattutto Trump, visto il recente (e non) passato problematico in materia – hanno scelto un low profile, invocando più coesione, collaborazione tra polizia e società e pace sociale; certo, Hillary aggiunge una “rieducazione dei poliziotti” mentre Donald insiste su “law and order”, ma il succo del discorso non è poi così diverso.
È molto diverso, invece, il profilo internazionale dei due candidati: è qua dove sembra che Hillary lasci indietro Donald per distacco, assumendo un profilo realmente presidenziale mentre l’avversario lancia accuse e – come detto in apertura – provocanti previsioni e allusioni. La democratica, ad esempio, non ha paura di entrare nello specifico (per quanto concesso da un format come questo) quando invoca supporto ai curdi contro ISIS; Trump, invece, si limita a sentenziare: “it’s a real mess” è l’espressione preferita per delineare il quadro geopolitico, e poco dopo allude al fatto che bisognerebbe ripensare alla posizione degli USA nella NATO o al loro impegno internazionale. La chiusa, poi, è abbastanza contraddittoria: “Quella nucleare è l’unica vera minaccia da affrontare, non il riscaldamento globale!”, dopo che circa mezzora prima si era difeso dall’accusa di relegare quest’ultimo ad una bufala inventata dai cinesi.
Insomma, lungi dall’essere pro-Clinton, questo dibattito conferma diverse considerazioni. Innanzitutto, giusto per tirare un sospiro di sollievo (o – forse – per preoccuparsi ancor di più), che la tendenza al ribasso del livello politico non è solo una caratteristica del nostro paese. Quindi, che il meno peggio, ad ora, sembra essere la candidata democratica, anche se sarebbe auspicabile una maggiore sollecitazione sulle sue posizioni – nel merito. Infine, che la consistenza delle due candidature è molto fragile (una più dell’altra, certo), e che basta un nulla per capovolgere i giochi. I prossimi dibattiti (9 e 19 Ottobre) saranno decisivi, anche se – come abbiamo visto – potrebbero bastare un tweet o un’email a decidere il prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America (?!?).
Giovanni Gazzoli