Terza puntata della rubrica “Quindicina Internazionale“. A fondo pagina le puntate precedenti.
di Simona Beretta*
Il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) non gode complessivamente di buona stampa: se ne parla poco, e la letteratura esplicitamente pro o contro prevale sulla presentazione accurata (inevitabilmente “noiosa”) delle implicazioni di un possibile accordo commerciale e regolamentare fra paesi che rappresentano una quota importante della popolazione e del sistema economico mondiale – importante, ma oggettivamente destinata a ridimensionarsi. Eppure conviene parlarne: in tempi di crescente frammentazione e di nuove barriere, è bene che ci siano negoziati dove si possa “litigare in santa pace”. Il negoziare ha infatti valore in sé, anche indipendentemente dall’esito.
In questi giorni (11-15 luglio 2016), i negoziatori statunitensi e dell’Unione Europea si incontrano per il quattordicesimo round negoziale del TTIP. Domina un atteggiamento tra l’indifferente e l’insofferente nei confronti di questo negoziato – anche perché i suoi protagonisti stanno attraversando un momento particolare: l’incombenza di elezioni presidenziali e la recrudescenza delle tensioni etnico-sociali interne negli USA; la Brexit e il sempre più evidente calo di consensi sul TTIP in Europa. L’atteggiamento critico nei confronti del TTIP da parte della pubblica opinione europea non è un a novità: le istituzioni europee preposte al negoziato si sono trovate sistematicamente a giocare “in difesa” nella loro comunicazione esterna. Ma secondo alcune rilevazioni recenti (Bertelsmann Stiftung), in Germania solo il 17% degli intervistati nel 2016 è convinta che il TTIP sia una buona cosa – contro il 53% nel 2014. Quanto alla Brexit, l’incertezza complessiva sul futuro delle relazioni fra UE e Regno Unito pesa anche sulle prospettive del TTIP. L’unico elemento di certezza è che, nel momento in cui il governo britannico farà ricorso all’articolo 50 del Trattato di Lisbona per recedere dall’Unione, scatteranno i due anni di tempo previsti per concordare i termini del recesso – un arco di tempo in cui sono improbabili progressi significativi nel negoziato TTIP (di cui il Regno Unito è stato peraltro uno fra i principali sostenitori).
Questo tempo di incertezza, tuttavia, può essere una grande risorsa. Serve, a mio parere, una pausa di riflessone per andare a fondo delle ragioni (e non solo della reciproca convenienza) dell’accordo fra le parti; soprattutto, è indispensabile guardare al TTIP allargando lo sguardo alla realtà globale. Altrimenti, il TTIP nasce vecchio.
Cercare il compromesso ragionando su costi e benefici del TTIP e bilanciando il do ut des per le parti è forse inevitabile, ma non all’altezza della situazione. Innanzitutto, costi e benefici aggregati sono difficili da stimare in maniera robusta e affidabile, in quanto emergono da una mappa molto complessa di soggetti vincenti e perdenti, di qui e di là dell’Atlantico. Ragionare per grandi aggregati è dunque pericoloso per la qualità del processo politico. Ad esempio, se si perdono posti di lavoro in un dato settore (e nella regione in cui tale settore è insediato) e se ne guadagnano altrettanti altrove, è inadeguato concludere che non ci sia impatto occupazionale: l’impatto c’è, eccome. In questa fase di incertezza nei negoziati, è forse possibile e senz’altro opportuno mettere in circolo una riflessione sull’impatto del TTIP non solo a livello aggregato (scambi, crescita economica) per l’area transatlantica, ma soprattutto sui suoi settori, regioni e gruppi sociali meno favoriti. Negoziare a partire da questi ultimi sarebbe una vera innovazione, consona ai segni dei tempi.
Ancora più urgente è una riflessione sulle conseguenze dell’accordo nel resto del mondo – soprattutto nei paesi a reddito medio-basso così “vicini”, specie all’Europa, da rendere del tutto irragionevole il non considerarli. Con o senza TTIP, la differenza di potenziale demografico e di condizioni di vita fra macroregioni ormai connesse da legami assolutamente “reali” (anche se viaggiano per via satellitare), continuerà ad esistere a muovere le decisioni di tante persone. Con o senza TTIP, la struttura produttiva e degli scambi mondiali continuerà ad evolvere rapidamente; ed è irragionevole sottostimare la dinamica tecnologica di paesi fino a pochi anni fa catalogati come “imitatori”. I paesi già “emersi” – dire emergenti è ormai anacronistico – hanno dimostrato la capacità di promuovere nuove istituzioni economiche e nuove reti di relazioni internazionali (pensiamo alla Asian Infrastructure Investment Bank, voluta dalla Cina, al China-Africa Cooperation Forum, o ancora alla Eurasian Economic Union, promossa dalla Russia).
Eppure, nel dibattito sui negoziati TTIP, il mondo sembra assente. L’unico riferimento esplicito alla realtà globale riguarda il possibile consolidamento dell’area transatlantica come riferimento per gli standard di regolamentazione globali ruolo. L’argomentazione che USA e UE dispongono di sistemi di regolamentazione tra i più avanzati al mondo, e che la loro collaborazione in tale materia può consolidare il loro ruolo globale è plausibile, ma sembra non convincere neppure l’opinione pubblica USA e UE (per il sospetto – non senza ragioni – di eccessiva ingerenza degli interessi consolidati delle grandi imprese nel processo). Figuriamoci il resto del mondo!
Alla luce delle dinamiche globali, contare sul TTIP per incrementare o mantenere il peso di USA e UE nel sistema globale appare quanto meno dubbio. Paradossalmente, allargare l’orizzonte della riflessione, invece di chiudersi nel compromesso a tutela degli interessi di chi sa farli valere, potrebbe rivelarsi l’unica strategia realistica perché le economie USA e UE ritrovino un ruolo di riferimento nella comunità internazionale: non tanto per il peso quantitativo della loro potenza materiale, ma per la qualità inclusiva del loro promuovere l’integrazione.
* Professore ordinario di Politica Economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Direttore del Master in International Cooperation and Development, ASERI.
Puntate precedenti:
0. | Lorenzo Ornaghi – Una sfida necessaria: riallacciare azione politica e azione culturale
- | Damiano Palano – La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine
- | Riccardo Redaelli – Il processo di pace in Libia tra interessi particolari e bene comune