L’attacco di Nizza del 14 luglio ha visto nuovamente la Francia nel mirino di attentati terroristici che confermano la strategia del Daesh per diffondere il terrore: colpire la popolazione nei luoghi della vita quotidiana.
Tuttavia, le interpretazioni e i commenti all’attacco che sono seguiti denotano ancora una cerca approssimazione nell’analisi del fenomeno che rischia di avere, sia per le forze politiche, che per l’opinione pubblica, pericolose ripercussioni.
Partendo proprio dall’attacco e dalla sua rivendicazione si sono succedute diverse opinioni circa la vera paternità del Daesh dell’attentato. La strategia delle rivendicazioni è prettamente comunicativa: poco interessa e poco conta che l’attacco sia stato voluto dal Daesh, anzi, da quello che è noto la maggior parte degli attacchi rivendicati non sono stati comandati da una centrale operativa che detta modalità, tempi e luoghi dell’attacco, ma sono invece il frutto dell’adesione degli attentatori ad una propaganda che fa riferimento ad una catena di comando e controllo “loose”. L’effetto prodotto è uguale, se non di maggior impatto, di quello che si sarebbe ottenuto se il comando di attaccare fosse arrivato direttamente da Raqqa.
#ISIS officially takes responsibility for #Nice terrorist attack https://t.co/4sIEZZUJ4z #France pic.twitter.com/MtLBxHieza
— Al-Masdar News (@TheArabSource) 16 luglio 2016
E proprio sulla catena “sciolta” che collega gli attenti europei all’Iraq e alla Siria si gioca la partita ora più importante per la politica e per la “lotta al terrorismo”. Le rassicurazioni fornite negli ultimi giorni che “giustificano” i più recenti attacchi come “colpi di coda” di un Daesh che progressivamente perde terreno proprio in Iraq e Siria sono pericolose. Sicuramente le forze della coalizione stanno infliggendo al califfato perdite nei luoghi che per primi hanno identificato il territori controllato dal Daesh. Tuttavia, sarebbe alquanto pericoloso ritenere che le azioni portate a termine fuori da quei luoghi siano gli ultimi spasmi di un Daesh morente, come se annichilendo, se mai fosse possibile, la sua presenza in Siria e Iraq si estirpasse a livello globale la minaccia. Quarantasei gruppi, sparsi per diverse regioni del mondo, hanno giurato fedeltà e agiscono in nome del Daesh e la sorte di queste sacche di islamismo radicale non è minimamente legata in maniera diretta a ciò che accade in Siria e Iraq. Abbassare la guardia, e con essa anche la consapevolezza sociale del fenomeno, è tanto pericoloso quanto non eliminare coloro che pongono la minaccia.
Ancora, lo stupore che ogni volta si ha nei confronti delle modalità di attacco è sempre più legato ad una volontà mediatica dettata dal sensazionalismo che da un’analisi consapevole del terrorismo e da una certa percezione sociale. L’utilizzo di mezzi di locomozione da lanciare contro la folla non è certo una novità nel panorama degli attacchi terroristici: diversi sono infatti quelli portati a termine con questa modalità ad esempio in Israele, anche recentemente, ma anche in Francia a Digione e Nantes nel dicembre del 2014. E seminare il panico e mietere vittime con un furgone lanciato in mezzo alla folla veniva suggerito già nel 2010 sul numero 2 di Inspire (rivista qaedista) nelle sue sezioni di open source Jihad: “To achieve maximum carnage, you need to pick up as much speed as you can while still retaining good control of your vehicle in order to maximize your inertia and be able to strike as many people as possible in your rst run”. “The ideal location is a place where there are a maximum number of pedestrians and the least number of vehicles”.
@Ironwand French PM François Hollande and politicians BOOED by memorial crowds here b4 minute’s silence #Nice pic.twitter.com/Y0ymRa8CJm
— andreas soridis (@andreassoridis) 18 luglio 2016
Infine, diventa sempre più urgente approfondire il tema della radicalizzazione che porta a compiere questi gesti. Il panorama di profili che aderiscono alla causa o si ispirano alla modalità di esecuzione di atti spettacolari propagandati dal Daesh è esteso e contempla diverse tipologie: dai piccoli criminali che intraprendono il percorso di radicalizzazione nelle carceri, a quelli che si indottrinano online, a quelli che respirano l’aria del radicalismo nei tessuti sociali nei quali sono inseriti per tramite di relazioni familiari o amicali, a individui per i quali il processo di integrazione è fallito e ad altri che invece potrebbero essere sponsor della loro riuscita incarnando le giovani generazioni istruite di una comunità non necessariamente immigrata.
Capire le cause della radicalizzazione e i tempi, che in alcuni casi sono estremamente brevi, gioca un ruolo fondamentale nell’intercettare situazioni potenzialmente a rischio.
Alessandro Burato
Ricercatore “Itstime”