La Turchia trema. Trema sotto i colpi del terrorismo, che in questi giorni ha provocato due attacchi consecutivi. Il primo martedì scorso, una bomba nella metropolitana di Istanbul che ha causato 11 morti e 36 feriti; il secondo, il giorno successivo, un’autobomba davanti a un commissariato nella provincia del Mardin che ha ucciso almeno un poliziotto e due civili, ferendone altri 30.
Trema, insomma, sotto i colpi della rinnovata guerriglia del PKK e, secondo i dati diffusi da Amnesty International, anche sotto il peso degli oltre 2,7 milioni di profughi siriani, che fanno della Turchia il paese con il più alto numero di rifugiati al mondo – numero peraltro destinato ad aumentare in seguito alle clausole dell’accordo con l’Unione Europea del Marzo scorso.
È proprio da Bruxelles che arrivano i segnali meno incoraggianti per i piani del Presidente Recep Tayyip Erdoğan: segnali che possono addirittura far saltare ogni tentativo di avvicinamento dello Stato degli Stretti con l’Unione Europea. Infatti, se da una parte l’UE si mostra vicina alla Turchia e convinta di fare fronte comune nella lotta al terrorismo, dall’altra resta invischiata in una partita controversa, incastrata in delicate relazioni diplomatiche. Suscita ancora molta risonanza, infatti, la dura accusa lanciata all’Unione da Erdoğan durante la chiusura dei lavori del Word Humanitarian Summit dello scorso 24 Maggio: secondo il Presidente, infatti, i 6 miliardi di euro di aiuto promessi dall’UE per l’accordo sui migranti non sarebbero mai arrivati alla Turchia, e la promessa di liberalizzare le procedure per i visti e facilitare l’ingresso della Turchia nell’area Schengen sarebbe stata rimandata ad una indefinita data di fine Giugno.
Le cause per questo rinvio sarebbero le famose 72 richieste, da rispettare alla lettera, che l’Unione Europea ha presentato alla Turchia; tra queste, sono inclusi provvedimenti giudicati essenziali, quali la revisione delle leggi nazionali anti-terrorismo, la libertà di stampa, la lotta alla corruzione e la cooperazione giudiziaria con i paesi membri dell’Unione Europea. In aggiunta, vi è anche la preoccupazione espressa dalle parole di Angela Merkel, la quale ha “caldamente” invitato Erdoğan a rispettare gli obblighi di fornire la Turchia di un Parlamento “forte”.
Siamo così di fronte ad una nuova impasse nelle trattative UE – Turchia, che mette nuovamente in discussione l’annoso e controverso processo di integrazione della stessa nell’Unione Europea.
Processo complicato già dalla sua nascita, e inevitabilmente farraginoso nel suo sviluppo. Non è un mistero, infatti, che non solo il Parlamento Europeo, ma anche molti parlamenti nazionali, tra cui quello italiano, hanno sollevato questioni di legittimità e di opportunità nel sottoscrivere un accordo che, ad oggi, stenta a raccogliere un ampio consenso. È vero che il numero di partenze di migranti dalla Turchia si è sensibilmente ridotto negli ultimi mesi, ma è altresì vero che il numero di profughi sulle coste greche rimane ancora insostenibile, e che i rimpatri sono stati ben al di sotto delle aspettative. Diverse organizzazioni internazionali presenti nei campi profughi denunciano che basse percentuali dei richiedenti asilo in Turchia ricevono un trattamento adeguato: è inevitabile, in tal caso, che violazioni dei diritti umani distruggano la legittimità dell’accordo e sgretolino la convinzione europea che la Turchia sia un “paese sicuro”. Anche se, bisogna dirlo, la narrazione europea spesso si esime da una descrizione onesta della situazione sul campo, che a rigor del vero parla di programmi molto seri del governo turco per i rifugiati siriani e iracheni.
Certamente, ciò che desta maggiori perplessità in merito ad una futura reale implementazione degli accordi, è il fatto che non sembrano esserci segnali che aprano spiragli di concreto avvicinamento: Erdoğan, si sa, è un leader con cui è complicato discutere, ed è tutta da appurare la sua reale volontà di abbandonare il sogno della leadership del Medio Oriente a favore di un ruolo da comprimario (seppur di peso) in una Unione che lo vede con sospetto.
Inoltre, con l’estromissione di Davotoğlu dal Governo, le cose si fanno ancora più complesse: l’Unione Europea, infatti, perde un interlocutore fidato e si ritrova a dover avere a che fare con Erdoğan “uomo solo al comando”, sempre più restìo a cedere alle pressioni esterne e intollerante contro le minacce interne. Ora, l’Unione Europea sta correndo precipitosamente ai ripari con un piano da 62 miliardi da stanziare nei paesi di origine dei flussi migratori, nella tardiva speranza di fermarne l’emorragia: questo, in attesa di capire se potrà ottenere un reale progresso nell’asse con la Turchia, nella speranza che il suo tremolio non sia il nostro terremoto.
Matteo Radice