SINOSSI
Formatosi al rigore della cultura piemontese e sabauda, ispirato dalla militanza cattolico-popolare paterna, Donat-Cattin è stato tra le principali figure della sinistra interna della Democrazia cristiana, tra passione giornalistica, impegno sindacale e servizio in politica. Questo podcast ci racconta, attraverso il generoso ricordo della figlia Mariapia, il percorso di una personalità di grande intelligenza e forza polemica, in cui l’impegno politico si mescola con la drammaticità di alcuni momenti di vita familiare.
BIOGRAFIA
Carlo Donat-Cattin (Finale Ligure 1919 – Montecarlo 1991), personalità politica, giornalista sindacalista, fu esponente di spicco della Dc, deputato (1958-1979), senatore (1979-91) e più volte ministro.
Nato da una famiglia di origini torinesi e savoiarde, secondo di cinque figli, il padre Attilio era esponente del Partito popolare italiano e dirigente dell’Azione cattolica, vicino a Sturzo. La madre Maria Luisa Buraggi apparteneva alla nobiltà ligure. La militanza politica e gli incarichi pubblici del padre influenzarono non poco la sua formazione e la sua adesione agli ideali del cattolicesimo politico. Iscrittosi alla Facoltà di Filosofia non raggiunse la laurea, assorbito dall’attività giornalistica e dalla chiamata alle armi una volta proclamata la guerra fascista. Nel 1941 arrivò il matrimonio con Amelia Bramieri, da cui ebbe quattro figli: Claudio, Paolo, Mariapia, Marco, e l’arruolamento nell’esercito fascista.
Alla caduta del regime, si unì ai partigiani con le Brigate Garibaldi e divenne rappresentante nel Comitato di liberazione nazionale (Cln) per la componente democratico-cristiana. Fu tuttavia l’esperienza lavorativa presso la Olivetti di Ivrea, prima come operaio poi come insegnante di cultura generale presso il Centro formazione meccanici dell’azienda, a segnarlo in profondità, decretandone l’ingresso nelle Associazioni cristiane lavoratori italiani (Acli) e poi nella Confederazione italiana sindacati lavoratori (Cisl), di cui dal 1950 assunse per sei anni la guida della Federazione torinese.
Ciò nondimeno, nel corso degli anni Cinquanta l’attività di Donat-Cattin si orientò in modo più deciso in direzione politica, con l’esperienza amministrativa a livello locale, la segreteria provinciale della Dc, l’elezione al Consiglio nazionale del partito e quella alla Camera dei deputati (1958), aderendo alla corrente “Coerenze sociali” (poi “Forze sociali”) guidata da Giulio Pastore e composta prevalentemente da esponenti provenienti dal sindacalismo cattolico.
Alla fine del decennio, con la definitiva crisi del centrismo e con il profilarsi del dialogo con il PSI in vista della costruzione del centro-sinistra, Donat-Cattin si mostrò favorevole a questa prospettiva assumendo una postura critica nei confronti del grosso centro moderato che intanto si stava formando nella DC: i cosiddetti “dorotei”. Solo con la realizzazione del centro-sinistra organico (alleanza DC-PSI), egli accettò di entrare nel primo governo Moro (1963-64) come sottosegretario alle Partecipazioni statali. Nel corso degli anni Sessanta, divenne l’erede naturale di Pastore, tanto che alla morte di questi, nel 1968, fu lui ad assumere la guida della corrente sindacale interna alla DC (che intanto aveva preso il nome di “Rinnovamento”).
Nell’estate del 1969 Donat-Cattin fu nominato al Ministero del Lavoro (vi rimase fino al 1972), in un periodo cruciale per la vita politica italiana: l’autunno caldo e i rinnovi contrattuali, la crisi del principio della rappresentanza, il fallimento del centro-sinistra, l’esplosione della strategia della tensione con la strage di piazza Fontana (1969). La nomina a ministro del lavoro di Donat-Cattin segnò la sua consacrazione a leader della sinistra democristiana e lo vide portare a termine in pochi mesi molte vertenze sindacali e contribuire in modo decisivo all’approvazione dello Statuto dei lavoratori.
Nella prima metà degli anni Settanta, Donat-Cattin rimase su posizioni favorevoli alla prosecuzione di una politica di centro-sinistra. Nel 1973, con la fine dell’esecutivo neocentrista Andreotti-Malagodi, ritornò al governo per un quinquennio (1973-78), come ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno (1973-74) e dell’Industria (1974-78). Con il profilarsi della prospettiva di collaborazione con il Pci, le posizioni di Donat-Cattin e di Moro presero a divaricarsi. Dopo l’assassinio di Moro (9 maggio 1978) tale posizione si rafforzò, tanto da renderlo protagonista della cosiddetta politica del “preambolo”, un documento programmatico presentato al congresso Dc del 1980 che sanciva il rifiuto di qualsiasi tipo di alleanza con i comunisti. Alcuni hanno visto in questo frangente il passaggio di Donat-Cattin da una politica di “sinistra” a una di “destra”; altri invece hanno sottolineato, in modo appropriato, come la pregiudiziale anticomunista servisse a mantenere integra la tradizione cristiano-sociale della DC.
Ma proprio nel momento in cui sembrava destinato a un’assoluta centralità politica, Donat-Cattin fu investito nel dicembre 1980 dalla drammatica vicenda dell’arresto del figlio Marco, membro del gruppo terroristico Prima Linea. Il destino politico di Donat-Cattin ne rimase segnato. Solo nella seconda metà degli anni Ottanta si aprì una fase, seppur breve, di ritrovato protagonismo: nel 1986-87, fu nominato ministro della Sanità e rieletto al Senato.
Morì il 17 marzo del 1991 all’età di 71 anni.
TRASCRIZIONE PODCAST
Quando mio padre, fuori dal carcere di Alessandria, aspettava la mamma, era agosto, che era andata a trovare Marco su una panchina, ebbe l’infarto, quell’infarto che poi segnò già in quell’anno la sua vita. Mi pare che fosse l’83, io stavo preparando con le mie figlie e mio marito la macchina per andare in campeggio in Corsica. Le bambine erano eccitatissime; arriva la notizia, si smonta tutto, in Corsica non si va più e io corro all’ospedale di Alessandria dove mio padre era stato ricoverato d’urgenza e dove c’erano la mamma e Claudio: mi fanno entrare ed è stata un’emozione fortissima e mio padre mi ha detto “Ah sai che cosa ho fatto?”. Io ho detto “Ma cos’è successo, papà?”. “Eh, non lo so, però sono qui da un po’, per non impazzire ho incominciato a recitare le poesie imparate a memoria da quando ero piccolo, all’asilo. Ho detto io, “ah il prode Anselmo, ah la Vispa Teresa!” e le abbiamo recitate insieme, perché anch’io le sapevo a memoria, perché lui ogni tanto quelle cose le recitava e poi mi ha detto un po’ di altre cose che esattamente non ricordo. Dopodiché mi hanno fatto uscire e mi hanno detto “signora, non si è mai emozionato tanto con nessun altro di quelli che sono venuti a trovarlo”. E lì è stato un altro segnale che poi, a distanza di tempo, mi ha fatto venire in mente che lui cercava la mia complicità. Ma io non gliela concedevo per solidarietà con i miei fratelli, perché, chiaro, io ero la bambina, ero la femmina e lui mi cercava. Voleva che io accettassi qualche privilegio e io ne accettavo nell’infanzia uno solo, che erano gli “chantilly” . Cioè, lui portava le paste a casa la domenica quando c’era, ma c’era quasi sempre la domenica, almeno per qualche ora, e quando entrava diceva gli “chantilly” sono solo per Maria Pia e io lì, dato che sono golosissima esattamente come lui, dicevo “ok va benissimo”.
Carlo Donat Cattin ha attraversato la nostra storia vivendo tutte le fasi cruciali della Repubblica, la resistenza e la ricostruzione del dopoguerra, il sindacalismo degli anni ‘50, il lavoro parlamentare con la Democrazia Cristiana dalla fine dal ‘58 al ‘91, diventando più volte ministro, e infine il terrorismo con la tragica scoperta di avere un figlio coinvolto nei fatti di sangue dell’organizzazione armata “Prima Linea” che lo segnò profondamente. È stato un uomo che non si è mai arreso e ha sempre lavorato per costruire un mondo più giusto e libero. Oggi raccontiamo Carlo Donat Cattin con le parole di sua figlia Mariapia, classe 1947, presidente della fondazione dedicata al politico di Finale Ligure. Nato da Attilio, uno dei fondatori del Partito Popolare, e Maria Luisa Buraggi appartenente alla nobiltà ligure. Crebbe a Torino e si formò agli ideali del cattolicesimo politico. Prende la maturità classica da privatista perché è cacciato da tutte le scuole per la sua attività anti-fascista, all’ultimo anno. Si sposa nel 1941 e dopo la caduta del regime entra nella resistenza inquadrato con le Brigate Garibaldi, combattendo e continuando la sua attività giornalistica.
Frequentava certi ambienti a Torino, quando era ragazzino, che segnarono la sua formazione. E questi ambienti erano quelli in cui l’aveva inserito il padre, era quello dell’oratorio della Crocetta, era quello del cenacolo sempre della Crocetta e c’erano dei personaggi di grande profilo, tra questi padre Enrico di Rovasenda. In questo ambiente molto stimolante dell’Azione cattolica, mio padre si formava e lui ebbe tra le mani un’edizione dell’ ”Umanesimo integrale” quando era giovanissimo, aveva 17 anni. Ma non c’è solo Maritain, c’è tutta questa cultura francese, lui lo leggeva in francese ma non lo parlava, pur essendo di origine francese. Sicuramente fa la resistenza in armi, tra i cattolici che pur essendo profondamente religiosi e detestando il sangue, la violenza, ritengono che in certi momenti occorre combattere. Non ha mai raccontato nulla direttamente a noi. Anche se i racconti della nostra infanzia sono tutti legati alla guerra e alla resistenza, ma hanno voci femminili. La voce della mamma, la voce della nonna, la voce di quelle persone che erano amiche della mamma e della nonna quando c’era la guerra, sia a Montefiascone in provincia di Viterbo, dove lui è sottoufficiale e dove sta con la mamma, subito dopo il loro matrimonio e la mamma sta aspettando Claudio. Una volta fuggito per arrivare poi a Chivasso, dove stavano i miei nonni in quel periodo, ma ormai avevano già deportato suo padre, negli ultimi giorni di gravidanza, si trasferisce nell’alta Langa perchè mio padre riesce ad entrare, a lavorare all’Olivetti di Ivrea, perché l’Olivetti di Ivrea era uno dei luoghi dove la resistenza aveva uno dei suoi principali punti di riferimento nel Canavese. Però, quell’esperienza in fabbrica lo segna, perché lui vede dentro che cos’è la fabbrica e conosce che cosa, chi sono gli operatori, gli operai, che facce hanno, che mani hanno, che vite hanno, che cosa pensano, come vivono e questo lo fa diventare sindacalista, fa sì che lui diventi sindacalista sempre. Nel 1947 scrive un articolo sul dramma dell’operaio cattolico in fabbrica e da lì parte il percorso che lo fa essere sindacalista sempre, anche quando diventa ministro del lavoro oppure essendo veramente un uomo di Stato. Mio padre per parlare con gli operai impara il piemontese, parlava perfettamente il piemontese, in casa si parlava solo l’italiano, ma lui parlava, io lo sentivo parlare con quelli che lo venivano a trovare, in piemontese, soprattutto nella sede della Cisl che era in via Barbaro.
In questi intensi anni di dopoguerra definisce il suo sindacalismo a partire da Giulio Pastore, fondatore della Cisl, sindacato cattolico, e leader della corrente di sinistra della DC, e Giuseppe Rappelli, maestro da cui prese gradualmente le distanze nel corso degli anni. Legato a una visione riformista del ruolo del sindacato, la sua visione del ruolo del sindacato poggia su due capisaldi: l’approccio riformista e l’indipendenza rispetto al partito. Assume posizioni spigolose e indipendenti dal partito. Osteggia la scissione della componente cattolica della CGIL, nonostante si fosse mostrato critico verso la proclamazione dello sciopero generale indetto dopo l’attentato a Togliatti, matura la convinzione che il sindacato deve mantenere una posizione indipendente rispetto al partito, crede nella determinazione degli indirizzi sindacali attraverso l’attribuzione di poteri deliberativi alle assemblee di base. Queste posizioni lo pongono però in contrasto con le componenti moderate della DC, in particolare con l’influente capo dell’Azione cattolica Luigi Gedda che ne impedisce la candidatura alla camera dei deputati nelle elezioni politiche del 1953. Donat Cattin si orienterà verso l’attività politica comunque e nella prima metà degli anni ’50 è amministratore locale e poi segretario provinciale del partito a Torino. Aveva un carattere impulsivo e precipitoso alimentato dalla fede nelle proprie idee. Era tenace e capace di tenere le sue posizioni in modo anche spigoloso e non si faceva scrupolo nell’esprimere il suo pensiero.
È stato costruito intorno a lui uno stereotipo, a volte anche una caricatura che devo dire non ha nulla a che fare con il personaggio. Sì, forse certi suoi comportamenti, certe sue uscite a volte anche un po’ irruente, questo carattere, questo temperamento focoso, questa incapacità di tenersi, di aspettare un momento prima di dire una battuta a volte anche feroce, hanno spesso costruito intorno al personaggio un’immagine che non corrisponde alla realtà, alla profondità del suo pensiero. Diciamo che su questo ha centrato il punto la presidente del Senato Casellati quando abbiamo celebrato il centenario in Senato. Aveva un carattere e credeva così tanto nelle cose per le quali si buttava a capofitto, anima e corpo, dimenticandosi di mangiare, di dormire, anche di avere una famiglia, certe volte, perché veramente a questo paese ha dato la vita e non a questo paese in generale, a un paese che fosse quello disegnato dagli uomini della ricostruzione. A questo paese ha dato la vita, poi aveva anche dei difetti, a volte esagerava, l’abbiamo immaginato. Mamma gli diceva “Carlo, pensa”. Ma la stessa cosa la mamma diceva a me, diceva che ero come lui e io le rispondevo “meno male”.
Carlo sposa nel 1941 Amelia Bramieri, impiegata tessile, e dal matrimonio nascono quattro figli: Claudio, Paolo, e Maria Pia dal ‘44 al ‘46 e poi il quarto, Marco che arriva nel 1953. La sua attività lo assorbe moltissimo, perché fa il sindacalista, il giornalista e l’attivista di partito. Un padre che sembrava lontano, soprattutto agli occhi di sua figlia, che solo con il tempo capirà quanto li abbia nel cuore.
Era un padre così che incuteva timore, io forse avevo meno timore dei miei fratelli perché lui riservava a me un’attenzione, una dolcezza particolare. Dei miei fratelli grandi, diverso fu il suo rapporto con Marco, mio padre ha avuto noi tre in batteria tra il ‘43 e il ‘47, era giovanissimo, quindi non ci riservò molta attenzione, perché aveva troppo da fare, io l’ho capito tardi, cioè lui faceva tre mestieri quando io ero piccola, faceva il sindacalista, lavorava, era già il giornalista che era il mestiere che gli dava da vivere ed era già nel partito a livello locale, ma devo dire anche nazionale perché lui ha fatto tutto il cursus honorum. Quindi, siccome aveva tutte queste cose da fare e per lui la cosa fondamentale era la ricostruzione del Paese, beh, insomma, il tempo che ci poteva dedicare era poco. Ed aveva una capacità straordinaria di concentrazione nel caos che noi combinavamo in casa, per cui lui lavorava senza avere uno studio, potevamo cadere, farci male, non ci sentiva, non ci vedeva. Era una cosa che io non tolleravo, che mi dava molto fastidio, perché pensavo che non ci amasse abbastanza. Invece non era vero, era necessario, era indispensabile, altrimenti come avrebbe fatto a lavorare? Non ce l’aveva uno studio. Ci sono stati tre momenti straordinari. Uno è gioioso, poche ore prima del mio matrimonio. Io mi sono sposata di pomeriggio e avevo pattuito con i miei genitori che il tutto si svolgesse in non più di un tempo di quattro ore tra la cerimonia religiosa e il ricevimento. Però ho fatto esattamente come quello che desideravano loro. Mi sono sposata nella mia parrocchia di periferia. Ho accettato che si facesse ricevimento in un certo posto che mio padre amava e ho ridotto al minimo i miei amici perché lui doveva invitare quella volta certe persone. Cioè i suoi amici, era molto contento di poter fare questa festa ed era eccitatissimo quella mattina perché aveva mandato partecipazioni a tutti. Telefonavano, arrivavano telegrammi, regali, c’era una gran confusione e c’erano anche delle persone in casa e io ero nella mia camera letto. A un certo punto mi vengono a chiamare, e mia madre mi trova che piangevo e non riuscivo a parlare, allora mia madre per la prima volta invece di dire come al solito “ma non piangere, tuo padre si dispiace” lo chiama e lui si siede vicino a me e mi guarda e mi dice ma cosa sta succedendo? Tenerissimo eh, “ma per caso non ti vuoi più sposare no perché non ti devi preoccupare eh non ti devi assolutamente preoccupare perché anche se abbiamo fatto tutte queste cose cose, se hai cambiato idea, va bene lo stesso”, io, in quel momento, ho pensato che mio padre mi amava infinitamente. Io ho detto singhiozzando, “no, no, io sono contenta di sposarmi, sono felicissima di sposarmi, però io non voglio tutto questo caos, io volevo stare solo con te, la mamma, i miei fratelli in casa, solo noi”, prima che poi lasciassi questa casa. Allora lui ha cominciato a dire “Fate silenzio, non disturbate Mariapia, non facciamo confusione”, ha abbassato il rumore del telefono e quindi poi io mi sono ripresa e lui mi ha accompagnato all’altare e quando siamo usciti da casa insieme, la gente di quel quartiere che ci conosceva ha applaudito l’uscita della sposa- forse li avevo respinti questi ricordi così felici, ne sono venuti fuori altri-. E l’ultimo è legato a mio fratello Marco, quando è venuto fuori tutto e ci siamo abbracciati, oppure quando ho dovuto, sono stata io, dargli la notizia della sua morte perché era arrivata di notte a casa mia. Perché credo che fosse un poliziotto, che l’aveva raccolto sulla strada, nell’incidente in cui morì, era un compagno di scuola di mio marito. Quindi nel cuore della notte ci arrivò quella notizia e ci alziamo, andammo a dirlo a mio padre e a mia madre. E poi quando fu operato.
Nel ’58 dopo aver servito negli organi nazionali della DC viene eletto alla Camera con la corrente della sinistra sindacale guidata da Pastore e composta prevalentemente da esponenti provenienti dalle Acli e dalla CISL. Sono gli anni in cui Moro si appresta a guidare la segreteria del partito e a guidare la svolta di centrosinistra. A questa prospettiva Donat Cattin decide di aderire pensando sia necessaria per governare le trasformazioni della società industriale e fordista. Così nel 1968 Moro lo chiama nel suo primo governo come sottosegretario alle partecipazioni statali. Il momento di svolta è il ’58.
Mio padre va in Parlamento nel ’58, ma il ’58 è un anno importantissimo. Se si guarda la storia d’Italia, dell’economia italiana. Mio padre non ha molto apprezzato il fatto che non sempre il centro ha capito cosa stava succedendo nelle grandi fabbriche del nord perché la vita alla Fiat e nelle grandi fabbriche, nelle fabbriche fordiste, Torino era una città fordista, i tempi erano dettati dalla Fiat, non solo i tempi di lavoro in fabbrica ma anche i tempi della vita, era una realtà in cui chi non la pensava in un certo modo, veniva messo nei reparti di confino, dove il sindacato in fabbrica non poteva entrare. Cioè non è solo al governo che mio padre, quando entra nel governo come sottosegretario, esprime una posizione politica precisa. È nel partito, quindi è dentro gli organi della Democrazia Cristiana. È nei discorsi che lui pronuncia, fin dall’immediato dopoguerra, che viene fuori questo personaggio e viene fuori la sua posizione, è dentro il partito che lui dà le sue battaglie, è dentro la grande battaglia del centro sinistra che lui voleva molto prima, lui scrive a Moro una lettera bellissima in cui gli dice “ma vieni una volta a Torino vedere questa città?” ed è incredibile il legame che c’è fra questi due personaggi. Se c ‘è una persona che mio padre ha amato, quella persona è Aldo Moro. Aldo Moro esercitava su di lui un fascino straordinario. Cioè: che il governo del Paese avesse nelle sue componenti anche i comunisti mio padre lo accettava solo se c’era Moro, se Moro era vivo. Moro era il contraltare a quella che lui temeva diventasse l’egemonia comunista. Ed è su un concetto di egemonia che lui era profondamente anticomunista. Ed è quello che io non ho capito per tanto tempo, perché io ero gramsciana.
Nel corso degli anni ‘60 l’esperienza del centrosinistra si rivela deludente e ne attribuisce la responsabilità all’opposizione interna delle correnti moderate del suo partito, i cosiddetti dorotei. Questa insoddisfazione si acuisce alla fine del decennio quando nel Paese emergono non solo i movimenti studenteschi e operai ma anche l’inquietudine dei settori più avanzati del cattolicesimo sempre più distanti dalla DC. La crisi è talmente profonda che valuta persino la nascita di un’altra formazione ma abbandona presto questa ipotesi. Nel 1969, Donat Cattin è nominato al Ministero del Lavoro in un periodo cruciale. L’autunno caldo e i rinnovi contrattuali, la crisi del principio della rappresentanza, il fallimento del centrosinistra e l’esplosione della strategia della tensione con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. La sua prima esperienza ministeriale è comunque coronata dall’approvazione dello statuto dei lavoratori.
Mio padre diventa Ministro del lavoro nell’estate, nell’agosto del ‘69. Il precedente Ministro va ricordato, era un grande Ministro. Giacomo Brodolini, che muore tragicamente perché aveva un tumore al cervello, che ha lavorato indefessamente al progetto dello statuto fino, credo, agli ultimi giorni della sua vita. Un personaggio tragico, ma straordinario, per il quale mio padre sentiva un grandissimo rispetto, una grandissima considerazione. Si trova questa eredità in mano, ma per conto suo a uno statuto aveva pensato, e quello è un momento straordinario, è la star di quel momento e anche chi non lo ama è costretto a intervistarlo, costretto a sentirlo, va in televisione, su tutti i giornali è affiancato da un sottosegretario meraviglioso, Toros, che sarà poi lui stesso ministro, friulano e dall’equipe di lavoro che aveva costituito al Ministero del Lavoro che lui non cambia. E con una tenacia e una perseveranza che solo lui possedeva, era un uomo tenace, porta a casa un risultato insperato. E quando si dice “non è perfetto, ma bisogna provarlo”, perché questo è il momento in cui riusciamo ad approvarlo e servirà quando il momento non sarà più così felice. Perché poi a distanza di pochissimo succedono i fatti di Piazza Fontana. Mio padre dice “arrivano i colonnelli, diamoci da fare e chiudiamo” e manda avanti l’iter parlamentare, fino a che nel ’70 quello che è noto come lo statuto dei lavoratori con un nome molto più lungo, la legge 300, viene approvata sia dalla Camera che dal Senato. I due discorsi che lui pronuncia alla Camera e al Senato sono bellissimi. Io ogni volta che li leggo o li rileggo, mi commuovo. La difesa dei lavoratori, della parte debole, era una delle cose che gli stava più a cuore, perché questo Paese diventasse un Paese più giusto, più libero, più democratico.
Nel corso degli anni ’70, dopo la morte di Pastore, Cattin è il leader ormai della corrente della sinistra sindacale, “forze nuove” per un rinnovamento interno della DC. Nella prima metà del decennio è ancora molto vicino a Moro, collabora per un maggiore coinvolgimento dell’Europa nelle grandi questioni irrisolte, e si oppone ai tentativi di Andreotti e Fanfani di spostare a destra il partito. Tra il ‘73 e ‘78 è al Governo come ministro del Mezzogiorno e poi dell’Industria. Con il profilarsi della prospettiva di collaborazione con il PC, le posizioni di Donat Cattin e di Moro cominciano a divaricarsi. Non condivide l’idea di Moro e teme che l’avvicinamento a Moro possa portare nella DC posizioni conservatrici e disperdere il bagaglio sociale. Durante questo conflitto di opinioni succede qualcosa di impensabile. Il rapimento di Moro e il suo assassino da parte delle Brigate Rosse.
Delle giornate atroci. E quando poi viene scoperto il corpo di Moro, io ho riconosciuto nel volto di mio padre un dolore che poi ho visto solo, così in grande, forse quando era morto il suo di padre e poi quando era morto Marco, dopo, ma aveva proprio uno sguardo, un tono della voce diverso.
Dopo l’assassino di Moro è protagonista della “politica del preambolo”, un documento presentato al Congresso DC del 1980 che rifiuta qualsiasi tipo di alleanza con il Partito Comunista. Donat Cattin diventa vice-segretario nel ’78 e assume una posizione centrale nella politica italiana, ma proprio nel momento di massimo successo è investito nel dicembre del 1980 dalla drammatica vicenda dell’arresto del figlio Marco, membro del gruppo terroristico “prima linea”. Nel maggio 1980 erano trapelate le prime indiscrezioni. Lo scandalo assume dimensioni enormi, quando Francesco Cossiga allora Presidente del Consiglio viene accusato di aver informato Cattin consigliandogli di far espatriare il figlio. Cossiga nega ogni addebito. Marco Donat Cattin viene arrestato in Francia dove era fuggito dopo la pubblicazione delle prime voci sulla stampa.
Io, ho dei ricordi obnubilati da anni dolorosissimi e difficili che sono gli anni in cui tutto cade e una famiglia viene distrutta dalla scoperta di avere un figlio terrorista, un fratello terrorista, di essere messa alla berlina su tutti i giornali, di essere considerata connivente, poi dal dolore di avere scoperto quello che aveva fatto questo fratello e questo figlio, che è un dolore che non passa mai e che è all’origine della morte di mio padre. Perché quel cuore che si spezza è l’unica cosa che mi fa ancora commuovere me, quel cuore che siamo, quello schianto che ha, perché è stato un infarto spaventoso, fuori dal carcere di Alessandria, testimonia, proprio questo. Allora io non ero tanto concentrata sul preambolo, sul preambolo, come mio padre veniva anche abbandonato dai molti amici e mi faceva dispiacere. Io ero concentrata, ecco in quel momento, forse per la prima volta, a stare di vicino perché non si ammalasse troppo. Sì perché lui ha sofferto moltissimo, anche perché per Marco, il papà aveva una tenerezza, con lui, aveva esercitato una tenerezza che non aveva mai esercitato con gli altri, perché Marco nasce nel ’53. Adesso a 34 anni, sono dei ragazzini, ma mio padre era un uomo grande, molto più accudente, molto più affettuoso, si lascia andare, lo prende il braccio, se lo mette sulle spalle. Un dolore atroce.
Dopo la morte del figlio torna gradualmente all’impegno politico. Contribuisce alla riflessione sul declino della DC specie con la rivista “terza fase”. Nella fase ’86-’87 è Ministro della Sanità. Contribuisce alla fase degli equilibri interni al partito che nell’ultimo scorcio degli anni 80 porteranno De Mita alla guida del governo e Forlani alla segreteria del Partito ma nella primavera morirà, il 17 marzo del 1991, all’età di 71 anni.
Quando fu operato al cuore; intanto prima di essere operato avemmo una discussione dura sulla guerra in Iraq, lui era per la guerra. Mi disse una cosa, ripensata per l’Ucraina e la Russia, “se tutti avessimo fatto così avremmo ancora i fascisti”. Si arrabbiò perché dovevo pensarla come lui perché si rispecchiava in me, in qualche modo.
La figura di Donat Cattin è certamente una delle più interessanti nel nostro panorama politico, soprattutto per la fedeltà e la passione con cui visse i suoi ideali. Dopo l’omicidio di Moro alcuni hanno visto le sue posizioni come uno spostamento a destra invece la sua chiusura a un accordo con il PC era dovuta all’intenzione di mantenere integra la tradizione cristiano-sociale della DC.
Un ritratto lucido e partecipato di Emanuele Macaluso, una persona che è stato avversario politico. Emanuele Macaluso è l’unico che ha parole di comprensione umana, insieme a Sciascia. E poi si domanda, ma quali sono stati i rapporti tra Donat Cattin e il Partito comunista? Lui dice, “è stato un rapporto difficile? In Italia c’è stato un anticomunismo democratico di marca cattolica, socialista, liberale e repubblicana, coloro che non ricorsero in nome dell’anticomunismo alla mafia, al terrorismo, alle stragi, a forme di discriminazione violenta nei confronti dei comunisti, ma che combatterono una battaglia sul terreno democratico nei confronti del partito comunista. Donat Cattin fu uno di questi. Poi lui dice insomma, era una prospettiva, un perno, un peso, perché lui aveva una figlia, aveva sposato una signora che aveva avuto una figlia da un altro uomo che forse era il suo primo marito. Non ci si sporca la coscienza e le mani dei delitti di cui si è sporcato mio fratello perché non lo si può negare, tuttavia lui dice “per sette anni sono andato in carcere con mia moglie a trovare questa ragazza e questo comportò spesso lo sguardo crudele degli amici”. E Macaluso, che era un uomo sincero, dice “Il fine, giustifica i mezzi, è stato il segno che ci ha colpito e travolto tutti”. “E Donat Cattin fu la principale principale vittima di questo, il fine giustifica i mezzi”.
Le figlie della Repubblica è una delle iniziative che trovate su fondazione degasperi.org, grazie al contributo di Fondazione Cariplo e al sostegno dell’Istituto Gentili, nata da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzata da WIP Italia. È stato raccontato da me, Alessandro Banfi, ed è stato scritto e diretto da Emmanuel Exitu. Con la supervisione storica di Antonio Bonatesta e la collaborazione degli amici giovani della Fondazione De Gasperi nelle persone di Martina Bartocci, Iacopo Bulgarini, Miriana Fazzi, Federico Andrea Perinetti, Gaia Proietti, Luca Rosati, Sound Design di Valeria Cocuzza, registrazione in studio di Marco Gandolfo, per una produzione WIP Italia.